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mercoledì 15 ottobre 2025

secondo racconto: il ritorno del re

 

    





               IL RITORNO DEL RE

 

Il pomeriggio stava morendo piano, e l’aria sulla terrazza sapeva di pioggia vicina. Elyos stava litigando con un vaso di gerani che, per l’ennesima volta, si era ribaltato come un ubriaco.

«Giuro che vi rinvaso tutti e vi trasformo in origano se continuate così!» sbuffò, mentre cercava di raddrizzarlo.

 

Fu allora che sentì quella voce.

Una voce che non si dimentica, anche se il mondo intero cerca di fartela scordare.

«Il tuo pollice verde sembra più un pollice... in sciopero.»

 

Elyos si immobilizzò. Il cuore le fece un salto, come se avesse inciampato tra le costole. Si voltò di scatto, e lo vide lì, appoggiato al parapetto come se fosse la cosa più naturale del mondo:

Atem, col vento che gli muoveva i capelli e un mezzo sorriso sfrontato, proprio quello che le aveva rubato il respiro tre anni prima.

 

«Sei tu...» mormorò, ancora senza crederci.

Lui inclinò la testa. «Chi altri rimproverebbe la mia custode per maltrattamento a fiori?»

 

Elyos rise — una risata che non ricordava più di avere.

«Sai che mi hai fatto perdere tre anni di sonno?»

«Allora ho fatto un ottimo lavoro: dormire troppo fa male.»

 

Lei scosse la testa, avvicinandosi piano, come si fa con i sogni che si teme di rompere.

«Avevi promesso che saresti tornato.»

Lui la guardò, serio ma con gli occhi che brillavano.

«Lo so. E io mantengo sempre le promesse. Anche se ci metto un po’… sai com’è, il traffico tra le dimensioni è tremendo ultimamente.»

 

Elyos scoppiò a ridere. Per la prima volta dopo tanto tempo, rideva davvero.

 

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Fuori, la pioggia aveva cominciato a tamburellare sui vetri, leggera come dita curiose che bussavano alla finestra.

Elyos, con un plaid sulle spalle, sedeva accanto al letto dove Atem, ben rintanato sotto le coperte, agitava la testa e parlava come un torrente.

 

«E poi, Elyos, dovresti vedere i colori del cielo al tramonto nel mondo dell’aldilà! Non è rosso… è più come oro che si scioglie!»

«Davvero?» sorrise lei, aggiustandogli la coperta. «E dimmi, ti sei almeno ricordato di mangiare in tutti questi millenni o vivi solo di luce solare e chiacchiere?»

Lui rise, quella risata calda e piena che scacciava via la malinconia.

«Forse un po’ di entrambe… ma la luce del mondo dei vivi ha un sapore diverso, più dolce.»

 

Un tuono rimbombò lontano, e per un attimo Atem parve stringersi nelle spalle, come un bambino colto di sorpresa.

Elyos gli posò una mano fra i capelli:

«Non temere, non è un incantesimo che ti reclama indietro. È solo un temporale… capita anche ai re, lo sai?»

 

Lui la guardò, gli occhi viola che brillavano come piccole lune. «Lo so. Ma… mi piace. Mi ricorda che il cielo non dorme mai.»

 

Elyos rise piano. «Allora il cielo e tu avete molto in comune.»

 

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Un tuono squarciò la notte, così potente che i vetri tremarono.

Elyos trattenne a stento una risata: il faraone del millennio, eroe di duelli e battaglie, aveva appena rovesciato metà della tazza di tè sulle coperte.

 

— “Non ridere…” — borbottò lui, mentre cercava invano di tamponare con un fazzoletto la macchia di camomilla.

— “Oh, certo, maestà… il cielo osa ribellarsi, e tu impugni il fazzoletto come fosse Exodia!”

 

Atem la fissò con un cipiglio offeso, poi distolse lo sguardo, imbronciato.

Un altro tuono esplose, e lui si strinse d’istinto nella coperta.

 

Elyos sospirò con dolcezza, sedendosi sul bordo del letto.

— “E dire che hai affrontato spiriti antichi e mostri d’ombra, eppure basta un temporale per farti tremare le mani…”

 

Il ragazzo tacque per un istante, poi le rivolse un sorriso appena accennato.

— “Gli spiriti si affrontano con il cuore… ma il cielo, Elyos, quello non lo puoi sfidare. Ti ricorda quanto sei piccolo.”

 

Lei rimase in silenzio. Quella risposta era così semplice, eppure così matura.

Allora gli passò una mano tra i capelli e mormorò:

— “Piccolo sì, ma con un cuore grande come il deserto.”

 

Lui rise piano, stavolta sincero, e appoggiò la fronte al braccio di lei, come faceva da bambino.

Fuori, la pioggia cominciava a cadere più lenta, come se anche il cielo avesse deciso di ascoltarli.

 

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capitolo 2 **“L’odore della vaniglia”**

 

Il primo raggio di sole filtrava attraverso le tende leggere, danzando sul viso di Atem. L’odore dolce di vaniglia e burro appena sciolto lo raggiunse prima ancora che aprisse gli occhi.

Per un istante, rimase immobile, quasi sospeso tra sogno e realtà. Poi il suo stomaco, più sveglio di lui, decise che era tempo di scoprire da dove provenisse quel profumo invitante.

 

Scostò piano le lenzuola, scivolò giù dal letto — ancora un po’ impacciato con i vestiti moderni che Elyos gli aveva lasciato sul comodino — e si affacciò sulla soglia della cucina.

 

Elyos, con i capelli raccolti alla meglio, stava sistemando due tazze fumanti e un piatto di cornetti dorati.

«Buongiorno, mio piccolo re.» disse, senza voltarsi.

Atem si fermò un attimo. Quel titolo, pronunciato con tenerezza e non con deferenza, gli mise addosso un sorriso che non seppe trattenere.

 

«Buongiorno… Elyos.» rispose con la voce ancora impastata di sonno. Si avvicinò al tavolo, guardando curioso il cappuccino: la schiuma bianca, le spirali di cacao, il cucchiaino d’argento.

 

«È… una pozione?» chiese serio, accennando un gesto come se volesse evocare un incantesimo.

 

Elyos scoppiò a ridere, quasi rovesciando la propria tazza.

«In un certo senso sì: fa sparire il sonno e fa comparire il buonumore.»

 

Atem la fissò per qualche secondo, poi prese il cucchiaino e lo immerse nella schiuma. Soffiò piano, imitando il modo in cui lei aveva fatto poco prima — ma il risultato fu una piccola nuvola di latte schizzato che gli si appiccicò sulla punta del naso.

 

«Oh!» esclamò, sorpreso, toccandosi il viso.

 

Elyos gli porse un tovagliolo, trattenendo una risata.

«Benvenuto nel mondo moderno, Atem: qui anche le bevande sanno difendersi.»

 

 

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**CAPITOLO 3 “Le carte del mattino”**

 

Il profumo dolce della vaniglia aleggiava ancora nella stanza quando Elyos ripose le tazze nel lavello. 

Il sole filtrava tiepido dalla finestra e accarezzava il mazzo di tarocchi appoggiato sul tavolo, facendone brillare i bordi dorati.

 

Atem, seduto con le mani intrecciate davanti a sé, non riusciva a staccare lo sguardo da quelle carte. Non erano carte da duello, eppure… qualcosa lo chiamava.

«Posso?», chiese piano, quasi temendo che le carte potessero offendersi.

 

Elyos sorrise. «Certo che puoi, piccolo re. Ma sappi che queste non si usano per vincere battaglie. Servono per ascoltare, per guardare dentro, non fuori.»

 

Atem tese la mano, esitante. Non appena le dita sfiorarono il dorso del mazzo, un brivido sottile gli attraversò il palmo. Non di paura — era come un saluto. Le carte tremarono leggermente, come riconoscendolo.

 

«Hanno… un’anima», mormorò, stupito.

«Certo che ce l’hanno. Ogni carta ha vissuto qualcosa con chi l’ha toccata. Sono come piccoli ricordi che si intrecciano.»

 

Atem le sollevò lentamente, osservando la prima: *Il Matto*.

Un giovane in cammino, con il viso rivolto al cielo e il passo sospeso sull’orlo del precipizio.

Sorrise, quasi intenerito. «Forse… mi somiglia.»

 

Elyos rise piano. «Tutti abbiamo iniziato il viaggio da lì, Atem. Solo che tu lo hai fatto due volte.»

 

Atem rimase qualche secondo in silenzio, con le dita ancora sospese sul mazzo.

Poi, d’istinto, iniziò a mescolare le carte con gesti naturali, precisi. Elyos lo osservava — ogni movimento sembrava antico, quasi sacro, come se quelle mani ricordassero qualcosa che la mente aveva dimenticato.

 

«Non male per essere la tua prima volta», scherzò lei, sorseggiando il caffè ormai tiepido.

 

«In realtà… non credo sia la prima,» rispose lui, abbassando lo sguardo sulle carte. «È come se… loro mi riconoscessero. Come vecchi amici.»

 

Elyos sorrise. «Allora chiedi loro qualcosa. Ma non una domanda di battaglia — una del cuore.»

 

Atem chiuse gli occhi. Per un istante, la stanza parve riempirsi di un lieve fruscio, come il vento nel deserto. Poi pescò tre carte e le dispose sul tavolo:

**Il Matto**, **Il Sole**, **La Temperanza**.

 

La donna si sporse a guardarle e parlò a voce bassa, quasi fosse una preghiera:

«Il Matto sei tu, Atem: l’anima che cammina leggera, che si affida alla vita. Il Sole è la tua luce — quella che regali a chi ti incontra. E la Temperanza…»

Fece una pausa, incontrando i suoi occhi viola, ora attenti e un po’ emozionati.

«È la pace che hai finalmente trovato, dopo tanto cammino.»

 

Atem sorrise piano. «Allora è vero. Le carte sanno ascoltare.»

 

«Le carte sì,» rispose Elyos, «ma solo se chi le tocca ha il cuore puro.»

 

Lui rise, quasi imbarazzato, poi chinò il capo come un bambino sorpreso a ricevere un complimento troppo grande.

«Allora… posso dire che le carte mi hanno parlato di te.»

Elyos gli passò il mazzo di tarocchi, il legno della scatola profumava di tempo e incenso.

«Concentrati sul presente,» gli disse dolcemente, «non serve altro.»

 

Atem posò la punta delle dita sul dorso delle carte.

All’inizio fu solo un tocco curioso — ma poi un fremito lo attraversò.

Un battito, come un eco lontano… un respiro che non apparteneva a quella stanza.

Le carte vibrarono appena, un soffio d’oro sfuggì dai bordi.

 

Le immagini scorsero come specchi d’acqua: una corona spezzata, il deserto che brucia, il sangue di chi non può più parlare.

Lui trattenne il respiro.

«No… basta…» sussurrò.

Non voleva vederlo, non adesso. Non ancora.

 

Elyos si avvicinò piano, posando una mano sulla sua.

«Ehi… guarda me. Quelle immagini non hanno più potere su di te. Il passato è solo ombra se lo guardi da solo.

Ma se lo condividi… diventa memoria, e la memoria può guarire.»

 

Il re abbassò lo sguardo.

 Le carte si spensero, tornando a essere solo carta e inchiostro.

Nel suo petto, però, batteva una cosa che non sentiva da tanto:

**pace.**

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Atem restò immobile per un lungo momento.

Le sue dita tremavano appena, ma non per la magia: era il cuore che batteva troppo forte, come se stesse cercando di scappare da un ricordo.

Poi, piano, inspirò.

L’aria profumava ancora di vaniglia e di pane caldo.

Non di sabbia, non di cenere.

Di **casa**.

 

«Mi dispiace,» mormorò. «Non volevo…»

Elyos gli posò delicatamente un dito sulle sue giovani labbra sottili.

«Non devi scusarti, piccolo re. I ricordi non mordono se li accarezzi piano. E adesso non sei più solo.»

 

Per la prima volta, Atem non tentò di nascondere gli occhi lucidi.

Li lasciò essere, come il cielo dopo un temporale.

E in quello sguardo — mescolato di dolore e gratitudine — c’era una promessa silenziosa:

questa volta, nessuna ombra avrebbe potuto mai  più togliergli la luce che aveva trovato.

 

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Atem abbassò lentamente lo sguardo sulle carte sparpagliate sul tavolo.

La sua mano, ancora ferma a mezz’aria, vibrò di un’energia antica — ma non oscura: era solo la memoria che tentava di riemergere, come un’onda che ancora non vuole morire.

Poi lui sorride.

Un sorriso vero, quasi timido, che rompe la tensione come il primo raggio di sole dopo la pioggia.

 

«Sai una cosa?» disse, raccogliendo le carte con gesti attenti. «Se continuano a parlarmi del passato, le rimando nel mazzo. Che imparino le buone maniere.»

 

Elyos scoppiò a ridere, con quella risata piena e calda che riempie la stanza come una coperta.

«Oh, piccolo re, se il destino non ti ascolta, tu lo raddrizzi come una carta storta, eh?»

 

Lui si strinse nelle spalle, fiero e disinvolto.

«Beh, diciamo che… una regola l’ho imparata: non serve cambiare il passato, basta non lasciargli vincere la mano.»

 

La risata di Elyos si spense dolcemente.

Si avvicinò, gli passò una mano nei capelli ribelli, e lo guardò con l’affetto di chi ritrova un figlio dopo secoli di silenzio.

«Forse è per questo che sei tornato da me,» sussurrò. «Perché certe battaglie, Atem, si vincono solo quando qualcuno ti tiene stretto mentre combatti

 

Atem la guardò, gli occhi un po’ lucidi ma pieni di luce nuova.

«Allora… grazie per avermi aspettato, mamma

 

Un silenzio lieve scese nella cucina.

Solo il ticchettio della pioggia che scivolava via dai vetri, e il profumo dei cornetti che si faceva più dolce, come se anche il mondo, per un attimo, avesse sorriso.

 

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CAPITOLO 4 ** avventure domestiche**

La colazione era ormai finita.

Sul tavolo restavano solo un po’ di briciole, il profumo persistente della vaniglia e un cappuccino mezzo freddo.

Elyos si chinò a raccogliere il piatto vuoto, ma non fece in tempo.

 Atem, rapido come un gatto curioso, si alzò e le sfilò di mano la tazza con un gesto cerimonioso.

«Lascia fare a me! In un palazzo reale non mi facevano mai toccare nulla. È ora che impari, giusto?»

 

Elyos sorride, leggermente preoccupata.

«Eh, sì… ma magari cominciamo con qualcosa di *meno fragile*, piccolo re.»

 

Lui la ignorò del tutto, portando la tazza verso il lavello con l’aria di chi sta compiendo un’impresa eroica.

Poi accadde l’inevitabile: toccò il rubinetto.

Un getto d’acqua potentissimo gli schizzò addosso e lo lasciò con i capelli (già ribelli) arruffati come una tempesta nel deserto.

 

«Gli dèi dell’acqua… sono più forti di quanto ricordassi!» esclamò sputacchiando tra le gocce.

 

Elyos scoppiò a ridere così forte che quasi le cadde lo strofinaccio dalle mani.

«Atem! Ma non si combatte contro il rubinetto!»

 

Lui, completamente bagnato, la guardò con una serietà disarmante.

«Tu non hai mai visto un Nilo in piena, mamma. Fidati: questa è la sua reincarnazione domestica!»

 

Rise anche lui, stavolta, con una risata vera, limpida, che sembrò cancellare ogni ombra antica.

Poi si guardò intorno, curioso come sempre: toccò i libri, studiò i quadri, si avvicinò alla finestra, osservò a lungo le auto passare.

 

«Tutto si muove più veloce, qui,» mormorò. «Anche le persone. Non c’è bisogno di carri, né di cavalli… ma corrono comunque.»

 

Elyos gli si avvicinò piano, posandogli una mano sulla spalla.

«È vero, ma certe cose non cambiano. Come il tempo per una colazione insieme. O per ridere, anche solo di un rubinetto impazzito.»

 

Atem le sorrise, un po’ impacciato ma felice.

«Allora... oggi insegna a un re come si sopravvive in questo secolo. Prometto di non sfidare più gli elettrodomestici.»

 

«Va bene, ma giurami che non tocchi la lavatrice.»

 

«La lava-trice?»

 

«…lascia stare.»

 

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### **Capitolo 5 – La notte delle lanterne**

 

Il vento d’ottobre portava con sé l’odore di foglie bagnate e zucchero bruciato.

Elyos chiuse bene la sciarpa intorno al collo e diede un’occhiata al ragazzo che le camminava accanto, con passo attento e sguardo incantato.

 Atem osservava tutto come se il mondo si fosse appena risvegliato:

le vetrine illuminate di arancio, i bambini con mantelli e cappelli da strega, i lampioni addobbati con zucche sorridenti.

Ogni cosa sembrava nuova, strana e un po’ magica.

 

«È un rito?» chiese, scrutando una lunga fila di fantasmini di carta appesi sopra la strada.

 

Elyos rise piano. «Più o meno. È la notte in cui ci travestiamo da ciò che ci spaventa… per ricordarci che non tutto il buio fa male.»

 

Lui annuì lentamente, come se volesse imprimere quella frase nella memoria.

Poi si fermò davanti a una bancarella.

C’erano dolci di ogni tipo — mele caramellate, biscotti a forma di pipistrello, cioccolata calda servita in tazze di plastica con disegni di scheletri danzanti.

 

Atem allungò una mano, esitante.

«Sembrano… offerte per gli spiriti.»

 

«In un certo senso lo sono,» rispose Elyos, comprando due mele rosse lucide. «Ma stanotte gli spiriti siamo noi.»

 

Lui la guardò con aria perplessa, poi diede un morso al caramello.

Il viso gli si illuminò.

«È dolce! Come… come la luce del mattino!»

 

Elyos scoppiò a ridere.

«È zucchero, piccolo re. Attento, crea più dipendenza della magia.»

 

Camminarono ancora, tra risate e musica.

Una banda suonava in fondo alla via, e il cielo si tingeva di viola e oro.

Atem si fermò spesso — davanti a una vetrina di maschere, davanti a un gruppo di ragazzi che correvano gridando “Dolcetto o scherzetto!”, davanti a un cane travestito da drago.

 Ogni volta sembrava voler capire il senso nascosto delle cose, come se in ogni risata trovasse un frammento di verità.

 Poi, improvvisamente, si fermò.

Accanto a una piccola lanterna di carta, vide il riflesso di se stesso nel vetro di una finestra.

Per un attimo, il suo bellissimo sorriso si spense.

Le luci tremolanti disegnavano ombre dorate sul suo viso, e negli occhi violacei si rifletteva una tristezza sottile.

 

«Tutti portano una maschera,» mormorò piano.

«Io l’ho portata per troppo tempo.»

 

Elyos si avvicinò, posandogli una mano sulla spalla.

«Stanotte puoi toglierla, se vuoi. Nessuno ti giudicherà.»

 

Lui la guardò, e per un istante parve più giovane, fragile, umano.

Poi inspirò lentamente.

«Allora… voglio essere solo Atem. Niente re, niente passato. Solo… me.»

 

«Perfetto,» disse lei con un sorriso. «Allora cominciamo da una maschera nuova: quella della libertà.»

 

Gli porse un piccolo cerchietto con orecchie da gatto.

Atem la fissò, perplesso.

«È… un simbolo?»

 

«Più o meno,» rise Elyos. «Un simbolo di leggerezza. E di ironia.»

 

Lui esitò, poi lo indossò con una dignità regale.

«Allora, Elyos,» disse con un sorriso fiero, «guida il tuo re-gatto verso la conquista del mondo moderno.»

 

Elyos rise fino alle lacrime, prendendolo sotto braccio.

«Affare fatto, piccolo re. Ma prima ti insegno la cosa più importante.»

 «Cosa?»

 «Come si balla sotto la pioggia di foglie.»

 

Il vento si alzò, e le foglie rosse e dorate cominciarono a cadere intorno a loro.

Elyos prese la sua mano, e insieme si misero a girare, ridendo come due bambini.

La gente li guardava, qualcuno sorrideva, qualcuno pensava fossero solo due pazzi felici.

 

Ma per Atem, quella notte di ottobre non era solo una festa:

era il primo vero respiro del mondo.

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La strada ormai si era svuotata.

Le lanterne di carta ondeggiavano piano al soffio del vento, e la luce arancione delle vetrine si rifletteva sull’asfalto bagnato.

Atem camminava accanto a Elyos, con la coda del suo cerchietto da gatto che oscillava leggera dietro di lui.

 Aveva ancora sulle labbra un sorriso incerto, ma negli occhi qualcosa era cambiato.

Un’ombra, sottile ma reale, si era insinuata tra i riflessi viola delle sue pupille.

 

Elyos se ne accorse subito.

Conosceva quei silenzi: erano quelli che arrivavano quando il passato bussava alla porta della sua mente.

 «Atem,» mormorò, poggiandogli una mano sulla spalla, come faceva sempre in questi casi «che c’è?»

 

Lui non rispose subito. Guardava un gruppo di bambini correre con le lanterne accese, e il loro bagliore gli si rifletteva sul viso angelico come una danza di piccole fiamme.

 

«Le carte…» disse infine, piano.

«Quando le ho toccate stamattina… non era solo memoria. C’era qualcuno. Una voce che rideva.

È tornata, Elyos. Quella risata.»

 

Il suo corpo si irrigidì, e la mano si chiuse a pugno, come se volesse trattenere il tremito.

 

Elyos si avvicinò senza una parola. Gli prese la mano, la aprì con calma, intrecciando le dita alle sue.

«Ascoltami, piccolo re. Nessuno può tornare a imprigionarti. Non più. Quella voce non ha più il tuo nome.»

 

«E se avesse ancora il potere di chiamarmi?»

 La donna sollevò il viso di lui con dolcezza. 

I suoi occhi, scuri e stanchi, incontrarono quelli di lei, caldi come la fiamma di una lanterna.

 «Allora risponderemo insieme,» disse piano. «Non con la paura, ma con la luce.»

 Si sedettero su una panchina, al margine della piazza.

La pioggia aveva smesso di cadere, ma l’aria sapeva ancora di terra bagnata e zucchero. Elyos si tolse la sciarpa e la avvolse intorno alle spalle del ragazzo.

 

«È il mio mantello magico,» scherzò con un sorriso tenero. «Tiene lontane le ombre e le cattive voci.»

 Atem rise appena, ma nel suono c’era un’incrinatura.

«Funziona davvero?»

 

«Funziona perché io ci credo. E adesso ci crederai anche tu.»

 Restarono così, stretti l’uno all’altra, mentre il vento muoveva le ultime foglie.

Il mondo intorno si faceva silenzioso, e per un istante Atem chiuse gli occhi, lasciando che il battito del cuore della sua guida dal cuore caldo si sovrapponesse al suo.

 

La voce dentro di lui tentò ancora una volta di emergere — un sussurro, un eco lontano — ma trovò ad accoglierla non più il vuoto, bensì il calore.

Un respiro. Un abbraccio.

 Il mantello di Elyos, profumato di vaniglia e pioggia, lo avvolgeva come una preghiera.

E, piano piano, la risata si arrese e si spense.

 

«Sai,» mormorò lui, «forse il buio non scompare mai del tutto… ma se qualcuno lo abbraccia, smette di far paura.»

 Elyos sorrise, stringendolo un po’ di più.

«Esatto, piccolo re. Non dobbiamo distruggere il buio. Dobbiamo solo insegnargli a respirare con noi.»

 

Sopra di loro, una lanterna si staccò dal filo e prese il volo, lenta, fluttuante, verso il cielo.

Atem la seguì con lo sguardo, finché non divenne un punto di luce lontano.

 «Vedi?» disse Elyos. «Anche le fiamme trovano pace, quando smettono di lottare contro il vento.»

 E per la prima volta dopo molto tempo, Atem sorrise senza sentirsi tremare.

 

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### **Capitolo 7 – La stella **

 

Il mare era lo stesso, ma diverso.

Le onde sembravano più lente, più quiete, come se anche loro ricordassero quella mattina lontana.

Atem camminava accanto a Elyos, le mani affondate nelle tasche del giubbotto, il vento che gli scompigliava i capelli biondi che incorniciavano il volto.

 «Non pensavo che tu… ricordassi la data.»

La sua voce era bassa, quasi timida.

 Elyos sorrise, guardando l’orizzonte. «Come potrei dimenticare il giorno in cui il mare mi ha restituito un’anima?»

 Lui abbassò lo sguardo, un po’ imbarazzato. «Io non ero un’anima, allora. Ero un’ombra che non sapeva respirare.»

 

«E adesso?»

 Atem inspirò lentamente l’odore di sale. «Adesso… a volte ci riesco.»

Poi aggiunse, piano: «Grazie a te.»

 

Lei non rispose subito.

Aprì la piccola scatolina che teneva in mano.

Dentro, su un letto di velluto chiaro, brillava un piccolo ciondolo a forma di stella, tagliato nel cristallo più limpido che fosse riuscita a trovare.

 


«È per te,» disse, porgendoglielo.

«Per ricordarti che anche la luce più pura nasce da una ferita.»

 

Lui la guardò, confuso.

«Perché una stella?»

 

«Perché non si può toccare, ma illumina comunque. E perché anche tu, Atem, sei così: fragile, lontano… ma capace di rischiarare chi ti è accanto.»

 

Le sue dita sfiorarono il cristallo.

Per un attimo la superficie rifletté il cielo e il mare insieme, come se contenesse entrambi.

Poi la leggera catenella d’argento scivolò tra le mani di Elyos, che la fece passare dietro la sua nuca.

 

La goccia d’ambra sulla fronte catturò un raggio di sole, e il cristallo, appena più in basso, rispose con una scintilla.

Due luci, diverse ma armoniche, come due respiri che si incontrano.

 

Atem abbassò la testa, sorridendo appena.

«Non pensavo che qualcuno potesse ricordare ancora quel giorno.»

 

«Io non lo ricordo,» rispose lei. «Lo porto dentro, come si porta un battito.»

 

Per un attimo il vento cessò.

Elyos gli posò una mano sul viso, sfiorando la pelle con la stessa delicatezza con cui si accarezza un sogno.

«Buon anniversario, piccolo re.»

 

Lui la fissò, e nei suoi occhi viola si accese una luce nuova — non più quella del passato, ma di chi ha finalmente imparato a esistere nel presente.

 

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   **Capitolo 8 – Le luci della sera**

 

La città respirava in un modo tutto suo: a scatti, tra un clacson e un riflesso di fari.

Dal terrazzo, Atem la guardava muoversi come un enorme organismo fatto di vetro e acciaio.

Ogni finestra accesa era un piccolo cuore pulsante, un segreto di calore nascosto dietro le tende.

 

Lui si appoggiò alla ringhiera. Il metallo era freddo sotto le dita, ma l’aria portava un odore buono di pane e pioggia.

Lì sotto, le macchine correvano e gridavano, piccole luci impazienti che si urtavano come stormi di uccelli ciechi.

Sembrava un’umanità intera che non ricordava più come respirare piano.

 

Atem sorrise appena.

Era strano sentirsi… fermo.

Per tanto tempo la quiete era stata una prigione; ora era un dono.

Nel vetro della finestra di fronte vide il riflesso di una famiglia: un padre che affettava il pane, una donna che rideva, una bambina che correva con un gatto in braccio.

Un mondo minuscolo, racchiuso in pochi metri di luce gialla.

 

Un nodo gli salì in gola.

Non era invidia, né malinconia — era stupore.

Lui, che aveva vissuto in palazzi di pietra e sabbia, tra sacerdoti e incantesimi, non aveva mai visto **il miracolo del quotidiano**.

L’amore non come rito o sacrificio, ma come gesto semplice: una tavola apparecchiata, una voce che chiama per la cena, un sorriso stanco ma sincero.

 

Dietro di lui, Elyos si muoveva in cucina.

L’odore di zuppa di lenticchie e spezie riempiva l’aria, e lui si scoprì a seguirlo come si segue un canto.

 

«Sei pronto?» chiese lei, apparendo sulla soglia con il mestolo in mano.

 

Atem si voltò. 

Il cristallo a forma di stella rifletteva le luci della città come un piccolo firmamento sul suo petto.

«Sì,» rispose piano. «Solo… stavo guardando le stelle della terra.»

 

Elyos sorrise, avvicinandosi. «Ti piace la vista?»

 

«Sì. È viva. Anche se fa rumore.»

Si voltò verso di lei. «È questo, l’amore? Restare accesi anche nel frastuono?»

 

Lei posò una mano sul suo braccio, dolcemente.

«Sì, piccolo re. È proprio questo.»

 

Atem restò in silenzio ancora un attimo, poi prese un respiro profondo — e per la prima volta da molto tempo, gli sembrò di respirare insieme al mondo.

 

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### **Capitolo 9 – Il sapore delle cose nuove**

 

La zuppa fumava nelle scodelle e profumava di curry e rosmarino.

Atem la fissava con aria sospettosa, il cucchiaio sospeso a metà strada.

 

«Sono… lenticchie?» chiese, pronunciando la parola con cura, come se fosse un incantesimo sconosciuto.

 

Elyos rise. «Esatto. Piccole, ma portentose. Portano fortuna, soprattutto a Capodanno.»

 

«Capodanno?»

 

«È il primo giorno del nuovo anno. Si mangiano per augurarsi abbondanza e buona sorte.»

 

Lui inclinò la testa, serio. «E funzionano?»

 «Dipende da quanto ci credi,» rispose lei, sorridendo.

 

Atem prese un cucchiaio di zuppa, la assaggiò con cautela, poi fece una smorfia sorpresa.

«Ha un sapore… rotondo. Come se il sole fosse stato cotto piano, dentro l’acqua.»

 

Elyos scoppiò a ridere. «Mi piace questa descrizione! È ufficiale: sei il primo poeta delle lenticchie della storia.»

 

Lui la guardò, fingendo una solennità regale. «Allora pretendo una corona di pane.»

 

«Pane ce n’è in abbondanza, ma la corona la lasciamo per le feste,» replicò lei, riempiendogli di nuovo la ciotola.

 

Mentre mangiavano, la città si rifletteva nei vetri della finestra come un presepe moderno.

Le luci, il vento, i suoni lontani: tutto sembrava un po’ più caldo, un po’ più vivo.

 

Elyos si chinò leggermente verso di lui.

«Sai, se ti va, potresti restare qui per le Feste. Ci sono tante cose da scoprire: l’albero, i regali, le luci per strada…»

 

Atem alzò lo sguardo, sorpreso. «Posso?»

 «Certo che puoi. È casa tua, ormai.»

 Per un attimo restò in silenzio, poi annuì piano, un sorriso timido sulle labbra.

«Allora resterò. Voglio capire cosa significa “sentirsi a casa”.»

 

Fu in quel momento che qualcosa attirò la sua attenzione.

Sul camino, accanto a una candela spenta, c’era un giornale piegato.

Il vento della finestra socchiusa fece frusciare le pagine, scoprendo una fotografia in bianco e nero.

 

Atem si alzò, incuriosito.

Le lettere stampate non gli erano ancora del tutto familiari, ma la figura nell’immagine lo fece gelare.

Un oggetto antico, inciso di simboli, brillava sullo sfondo di una teca da museo.

 

Elyos lo vide irrigidirsi.

«Atem? Che c’è?»

 

Lui non rispose subito.

Le dita sfiorarono la foto come se potessero sentire la superficie del metallo.

 

«Quello… non può essere,» mormorò.

Un sussurro, appena udibile, ma carico di qualcosa che assomigliava alla paura.

 

 

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### **Capitolo 11 – Quando il trono tace**

 

La casa dormiva.

Solo il respiro lento del frigorifero e il ticchettio dell’orologio rompevano il silenzio.

Fu allora che un suono diverso si fece strada, lieve ma distinto: l’acqua che scorreva.

 

Elyos si girò nel letto, confusa. 

Per un attimo pensò di averlo sognato, poi il fruscio tornò, insieme a un’ombra di luce che filtrava dal corridoio.

Si alzò piano, ancora assonnata, e si avvolse nello scialle lasciato sulla sedia.

 

Quando raggiunse la cucina, lo trovò lì: Atem, seduto al tavolo, la mano intorno a un bicchiere mezzo vuoto, lo sguardo perso nel nulla.

La lampada accesa sopra di lui disegnava un cerchio dorato che faceva sembrare tutto il resto più buio.

 

«Non riesci a dormire?» chiese Elyos, la voce bassa per non spaventarlo.

 Lui alzò appena lo sguardo.

«No. Il sonno mi sfiora, ma non resta. Come se non mi riconoscesse.»

 

Elyos si avvicinò, sedendosi di fronte a lui. «Succede, a volte. Quando la mente è piena di cose che pesano.»

 Atem sorrise piano, ma non era un sorriso vero.

«Non riesco a ricordare l’ultima volta che ho dormito senza dover essere pronto a combattere. Anche nel silenzio, sento il trono. È come se mi chiamasse ancora.»

 

«Il trono?»

 Lui annuì, le dita che giocavano con il bordo del bicchiere.

«Non il trono di pietra, ma quello dentro. Quello che ti dice che devi essere forte, che non puoi fermarti, che se lo fai il mondo cadrà a pezzi.»

 

Elyos restò in silenzio per un momento, poi posò la mano sul tavolo, vicino alla sua.

«A volte il mondo può anche aspettare,» mormorò. «E tu puoi semplicemente essere un ragazzo che beve un bicchiere d’acqua di notte.»

 

Lui la guardò, sorpreso da quella semplicità.

«Un ragazzo,» ripeté, come se assaggiasse la parola per la prima volta.

 Lei sorrise. «Sì. Né re, né eroe. Solo un ragazzo che ha diritto al riposo.»

 

Atem abbassò lo sguardo.

«Non so come si fa. A non sentirmi responsabile di tutto.»

 

Elyos si alzò, prese la brocca e riempì di nuovo il bicchiere.

«Si comincia così,» disse, porgendoglielo. «Con un sorso d’acqua, e qualcuno accanto che ti ricordi che non devi portare il cielo da solo.»

 

Lui accettò il bicchiere, le dita che sfiorarono appena le sue.

«Quando ero nel tempio,» disse piano, «a volte guardavo il trono vuoto e immaginavo di potermi sedere altrove. Di essere solo un ragazzo con un nome, non un titolo.»

 

«E ora puoi,» rispose Elyos, con dolce fermezza. «Puoi scegliere dove sederti. E con chi.»

 

Per un attimo, nessuno parlò. Solo il rumore lontano della città, come un mare in miniatura sotto di loro.

Poi Atem chiuse gli occhi, inspirò lentamente, e lasciò andare un sospiro lungo, quasi un sollievo.

 «Forse… quando il trono tace, posso finalmente sentire me stesso.»

 

Elyos gli sorrise, passandogli una mano fra i capelli con un gesto spontaneo, materno.

«Esatto, piccolo re. È il silenzio che fa posto al cuore.»

 La lampada tremolò, come una candela sul punto di spegnersi.

E in quel silenzio, finalmente, Atem parve addormentarsi davvero — seduto, con il capo reclinato e la pace che, per la prima volta, non sembrava un sogno.

 

Elyos restò a guardarlo per un momento, poi spense la luce.

Nella penombra, il cristallo a forma di stella brillava piano, come un cuore che aveva imparato a battere da solo.


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Elyos lo osservò per un po’, finché il suo respiro non divenne regolare.

Le dita ancora intrecciate al bicchiere, la fronte che quasi toccava la manica della camicia.

Con infinita pazienza, gli tolse il bicchiere dalle mani, lo posò sul tavolo e gli passò un braccio intorno alle spalle.

 

«Andiamo, piccolo re,» sussurrò.

Lui non rispose, ma si lasciò guidare, mezzo addormentato.

Ogni passo era un piccolo cedimento, una resa, ma Elyos non lo spinse mai: lo accompagnò come si accompagna un bambino che ha lottato troppo contro la notte.

 

Quando arrivarono al letto, lo aiutò a sdraiarsi.

Lui mormorò qualcosa di incomprensibile, poi si raggomitolò istintivamente, la mano che cercava il ciondolo sul petto come un talismano.

Elyos tirò su la coperta fino alle spalle, accarezzandogli i capelli.

 

«Adesso sì,» mormorò piano. «Adesso il trono può tacere davvero.»

 

La luce della luna, filtrando dalle tende, disegnò un profilo quieto: niente re, niente eroe, solo un ragazzo che finalmente dormiva.

 


                                                    (immagine di Pinterest)   

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    **Capitolo 13 – Il risveglio del leone**

 

Il cielo di ottobre aveva il colore dell’ambra.

L’aria era limpida, tagliata da una luce chiara che sembrava non voler appartenere a nessuna stagione precisa.

Atem era in piedi davanti alla finestra, lo sguardo fisso verso l’orizzonte.

 

Da dietro, Elyos lo osservava in silenzio.

C’era qualcosa di diverso nel suo portamento: la schiena più dritta, lo sguardo concentrato, una calma che non era pace ma preparazione.

Non era più soltanto il ragazzo che la sera prima si era addormentato sul tavolo.

Era tornato il faraone — e tuttavia, dentro di lui, il ragazzo non era svanito.

 

Elyos si avvicinò piano, posandogli  come sempre una mano sulla spalla.

«Hai dormito ancora un po’? Hai mangiato qualcosa?»

 

Lui sorrise, ma non rispose.

Aveva già lo sguardo di chi sente il dovere prima ancora del giorno.

Elyos sospirò piano, poi gli sistemò il colletto della giacca — un gesto semplice, ma pieno di cura.

 «Sei pronto?»

 «Lo devo essere,» disse lui, con voce bassa.

 

«No,» lo corresse lei dolcemente. «Lo *sei* già. Ma non devi dimenticare che non sei da solo, oggi.»

 

Lui la guardò, come per assicurarsi che davvero intendesse seguirlo.

E quando vide nei suoi occhi la stessa determinazione di sempre, annuì.

 

Uscirono insieme, e il tragitto verso il museo trascorse in un silenzio pensoso.

Le strade pullulavano di gente, ma attorno a loro sembrava esserci una calma sospesa, come se il mondo stesso trattenesse il fiato.

 

Appena varcarono l’ingresso del museo, l’atmosfera cambiò.

L’aria era più densa, come se un’eco invisibile avesse riconosciuto il giovane re e gli stesse sussurrando il suo nome.

 

Elyos lo notò subito: Atem rallentò il passo, gli occhi fissi sulle teche illuminate.

Ogni oggetto sembrava emanare una vibrazione sottile, familiare.

Quando si fermò davanti alla sala principale, quella dove l’attendeva la mostra, lei gli prese la mano.

 

«Respira,» sussurrò.

 

Lui lo fece. Ma al suo respiro rispose un brivido d’aria, come un soffio antico che si alzava dalle pietre stesse.

Un lampo di energia passò sulle pareti, così rapido che solo lui parve notarlo.

 

«Elyos… qualcosa è sveglio.»

 

«Cosa?»

 

Lui non fece in tempo a rispondere.

Un’esposizione centrale, protetta da un vetro spesso, iniziò a vibrare.

La tavoletta con il simbolo dell’occhio brillò per un istante, come se un bagliore interno la percorresse.

Un suono basso, profondo, riempì la sala — e in quel momento Atem si irrigidì.

 

Un istante dopo, Elyos lo spinse via di colpo.

Fu un gesto istintivo, quasi animalesco: lo prese per le spalle e lo tirò indietro, mentre una crepa si apriva sul vetro e una scarica di luce attraversava la teca.

 

«Atem!»

 

Lui cadde, ma si rialzò subito.

Nel suo sguardo non c’era più paura. Solo una determinazione calma e antica.

«Sta cercando di venire fuori,» disse, e la sua voce non era più quella del ragazzo. Era quella del re.

 Elyos si voltò, gli occhi pieni di preoccupazione ma anche di orgoglio.

«Allora non gli permetteremo di farlo.»

 «Non dovresti essere qui, Elyos. È pericoloso.»

 

«Non dirlo a una madre, piccolo mio,» rispose lei con un sorriso fermo.

Poi, senza pensarci, si voltò verso una delle teche laterali.

Tra i reperti esposti, un antico arco cerimoniale era fissato a una base di vetro.

Con un gesto deciso — e forse un po’ folle — afferrò il supporto e lo sollevò.

 

Atem la guardò, stupito.

«Cosa…?»

 

«Non so usarlo bene come il mio a casa,» ammise lei, «ma so che non resterò ferma a guardare se qualcuno minaccia mio figlio

 

Per un istante, il faraone e la donna si guardarono, e nel loro silenzio non c’era più paura, né distanza.C’era un legame che attraversava il tempo: un re e la sua madre adottiva, pronti a difendere la pace che avevano costruito.

 

La luce tremolò ancora, poi si spense.

Nel silenzio, Atem avanzò, la mano sollevata.

Il simbolo sulla tavoletta si quietò lentamente, come se avesse riconosciuto la presenza di chi aveva giurato di custodire il mondo.

 Elyos, dietro di lui, abbassò l’arco e trattenne il fiato.

Solo allora lui parlò, con voce bassa ma ferma:

 «Il leone è sveglio. E non permetterà che l’ombra torni.»

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### **Capitolo 14 – Le sabbie che ricordano**

 

Il museo era un animale diverso al calar del pomeriggio: i corridoi lunghi trattenevano gli ultimi riverberi del sole, le teche brillavano come piccole isole nel silenzio. 

Dopo il bagliore, la direzione aveva fatto evacuare parte della sala; i visitatori, ancora un po’ confusi, si raggruppavano all’esterno, bisbigliando fra loro.

 Dentro, rimaneva l’eco del suono che aveva attraversato la teca: una vibrazione come di dune in movimento, un vecchio respiro che pareva voler parlare ancora. Elyos e Atem rimasero qualche istante al centro della sala, circondati dai guardiani che osservavano, preoccupati ma impacciati.

 

Un passo deciso ruppe il silenzio. 

Una donna con una targhetta al collo — capelli legati, occhiali sottili, lo sguardo di chi passa la vita a mettere insieme storie — si fece avanti.

 

«Sono la dottoressa Ishi,» disse, la voce ferma. «Sono la curatrice della mostra.»Si avvicinò alla teca, guardò la tavoletta, poi sollevò lo sguardo verso Atem con un’espressione che mescolava stupore e qualcosa di simile al riconoscimento. 

«Quella incisione… non dovrebbe essere qui.»

 

Atem la sentì dire il suo nome senza che lei lo avesse pronunciato davvero; fu un sussurro nell’aria, come se la sala avesse tradotto il suo passato in una parola. «Cosa intende?» chiese lui, la voce che tradiva una cautela antica.

 

La dottoressa prese un tablet e scorré alcune foto con le dita. «Il manufatto proviene da un sito aperto pochi mesi fa, scavi autorizzati e poi fermati per irregolarità. Ma il problema non è quello — è la datazione. 

La tavoletta mostra uno stile che precede molte delle nostre carte. I simboli… appaiono in quasi tutte le teorie sul culto del respiro, ma così dettagliati non li ho mai visti.»

 

Elyos la osservava, attenta. «Vuol dire che non è una semplice replica? Che è autentica?»

 «Sembra autentica.» La donna stava parlando piano, come per non rompere qualcosa di fragile. 

«E c’è di più: alcuni dei segni corrispondono a iscrizioni che sono state trovate — parzialmente — nelle cronache che citano un regno di cui si sa pochissimo. È come se qualcuno l’avesse riportata alla luce ora, come se fosse tornata a chiamare.»

 

Un mormorio attraversò la sala.


 Atem sentì il petto stringersi: non era solo la tavoletta, pensò; era la sensazione che sparsi nella pietra ci fosse ancora un respiro che chiedeva ascolto.

 «Potremmo portarla via per i test,» propose un uomo con un giubbotto blu — uno dei responsabili della sicurezza.

 «Ma rischiamo di perdere informazioni immediate. Dobbiamo capire se è stabile.»

 

Atem si fece avanti, la voce calma e netta come una lama. «Non portatela via. Lasciatela qui, ma… ditemi tutto quello che sapete.»

 La dottoressa lo guardò di nuovo, e un piccolo segno di curiosità si dipinse sul suo volto. «Lei… sembra sapere molto di queste cose. È curioso.»

 

«Io ho visto certe immagini,» rispose lui, senza aggiungere altro. «Non per raccontare storie. Ma perché se c’è qualcosa che può collegare il passato al presente, è meglio capirlo insieme.»

 

Elyos sentì salire in lui la vecchia decisione del re: proteggere la vita attorno a sé. 

Ma ora non era solo difesa, era ricerca — una volontà di chiudere un cerchio senza far ferire altri. 

Lei gli strinse la mano, appena: un piccolo gesto che gli ricordò che non avrebbe marciato da solo.

 

La dottoressa chiamò una sala attigua e invitò i due a seguirla.

 Lì, tra registri e lucidi strumenti, cominciò a spiegare. «Il manufatto è stato recuperato in una fenditura risalente a scavi non convenzionali. Alcuni frammenti trovati lì raccontano di riti che usavano il simbolo per canalizzare l’energia vitale di una comunità. Non era soltanto culto: era scienza sacra, una tecnologia rituale che legava la natura al comando umano.»

 

Atem ascoltava, ogni parola come una pezza che riattraversava il suo tessuto di ricordi. «E se quella tecnologia venisse usata di nuovo?» chiese, la voce trattenuta. «Se qualcuno sa ricomporla e richiama ciò che abbiamo chiuso?»

 La dottoressa scosse la testa. «Non lo so. Ma le tracce nei rapporti degli scavi dicono che furono scoperte anche tracce di un’attività che sembrava quasi… conscia. Qualcosa che rispondeva.»

 

Elyos inspirò piano. 

La paura che aveva tentato di nascondere lungo il viaggio tornò a farsi sentire, ma era una paura che non paralizzava: era la fiducia che, se affrontata, poteva essere messa al servizio di una scelta.

 «Che possiamo fare?» chiese.

 

«Documentare, proteggere, e — se possibile — leggere le iscrizioni con strumenti più delicati. Abbiamo bisogno di qualcuno che capisca la lingua antica e qualcuno che sappia ascoltare i resti. Potrebbe volerci tempo.»

 

Atem chiuse gli occhi per un istante e aprì le mani sul tavolo. «Allora iniziamo subito. Mentre voi fate i test, io voglio rivedere i registri degli scavi. Voglio capire la provenienza. E se c’è una minaccia…» la sua voce si fece più dura «…io la affronterò. Ma non da solo.»

 

Elyos lo guardò, il cuore stretto. «Non ti lascerò solo,» disse. «Mai.»

 

La dottoressa Ishi si voltò verso di loro con un mezzo sorriso, la professionalità che riprendeva il posto del turbamento. «Se siete davvero interessati, potremmo chiedere l’accesso agli archivi preliminari. E se lei, signore, ha ricordi che possano aiutarci a decifrare il contesto, sarebbe… prezioso.»

 

Atem la fissò, curioso e concentrato, come se in quel momento misurasse la distanza fra il suo passato e il presente. «Vi parlerò,» disse. «Ma solo se voi mi ascolterete senza cercare di incatenarmi a un ruolo già scritto.»

 

La donna annuì. «Ascolteremo. Noi, gli archeologi, raccontiamo storie. E a volte le storie hanno bisogno di chi le ha vissute.»

 Fu una proposta che sembrava semplice e terribilmente importante: ricomporre i pezzi con cura, senza fretta, senza spettacolo. Non era un duello. Era un lavoro di pazienza.

 

Quando uscirono dalla stanza, la luce del pomeriggio aveva preso un tono più dolce. Sapevano che il cammino sarebbe stato lungo: non bastava proteggere la tavoletta, bisognava capire cosa aveva causato la sua comparsa. 

E mentre camminavano, Elyos tenne la mano di Atem come una promessa senza parole — la promessa che, qualunque cosa fosse tornata, avrebbero trovato insieme la strada per non farle fare del male al mondo dei vivi.


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### **Capitolo 15 – La pietra che risponde**

 

Il museo di notte aveva un suono diverso.

Non era più il mormorio delle voci o il tintinnio dei passi, ma un respiro profondo, antico, che sembrava provenire dalle mura stesse.

Gli archivi, situati nel seminterrato, erano immersi in una luce pallida. Scaffali ordinati, fascicoli legati con spago, odore di carta e di polvere.

 

La Dottoressa Ishi stava già aspettando.

Indossava un camice chiaro, i capelli raccolti in una treccia bassa e lo sguardo calmo di chi ha imparato a non stupirsi mai del passato.

Sul tavolo, una pila di documenti e una vecchia mappa ingiallita.

 

«Avete fatto bene a tornare,» disse, senza alzare la voce.

«Dopo l’incidente di oggi, ho ritenuto necessario approfondire alcuni materiali che non avevo ancora mostrato al pubblico.»

 

Elyos la salutò con un sorriso cortese, ma notò subito che Atem era diverso: il suo sguardo era attento, ma dentro vi brillava qualcosa che non era semplice curiosità.

Era come se ricordasse ogni linea di quella mappa ancor prima di vederla.

 

l'archeologa posò una lente d’ingrandimento sul foglio.

«Questo è il punto esatto da cui proviene la tavoletta. Un luogo chiamato *Wadi el-Res*, una depressione sabbiosa vicino al corso di un fiume scomparso da millenni. Ma c’è qualcosa di strano: secondo gli appunti di uno degli archeologi, le iscrizioni sembrano essere state… aggiornate. Come se qualcuno le avesse riscritte molto tempo dopo l’epoca originale.»

 

«Aggiornate?» ripeté Elyos. «Da chi?»

 

La dottoressa sollevò lo sguardo. «È quello che voglio capire. C’è un passaggio nelle note di campo che parla di una “scrittura che cambia forma sotto la luce diretta”. Ho pensato fosse un’esagerazione, ma dopo ciò che è accaduto oggi…»

 

Atem si avvicinò.

Le sue dita sfiorarono appena la pergamena, e in quell’istante le linee tracciate sembrarono vibrare, come se un soffio invisibile passasse sopra l’inchiostro.

La luce del neon oscillò per un momento, poi tornò stabile.

 

La  dottoressa Ishi lo osservò, senza spavento.

«Lo sospettavo,» disse piano. «Lei non è solo un visitatore.»

 

Elyos fece per parlare, ma Ishi alzò una mano.

«Non è una domanda, signora. È un’intuizione. In Giappone diciamo: *“Kaze ga fuita toki, ishi wa kotaeru”* — quando soffia il vento, la pietra risponde.

E adesso… il vento ha soffiato.»

 

Atem rimase immobile, poi la guardò negli occhi.

«Lei lo sente, vero? Quel legame… come se la pietra stessa respirasse.»

 «Sì,» ammise Ishi. «È raro, ma succede. A volte gli oggetti custodiscono una memoria viva. Quando qualcuno con lo stesso respiro li sfiora, si destano.»

 

Elyos strinse le braccia, come per proteggersi da un brivido. «Vuol dire che quella tavoletta lo stava aspettando?»

 La dottoressa Ishi annuì lentamente.

«Forse. O forse aspettava entrambi. Chi risveglia il passato non è mai solo.»

 

Un silenzio carico riempì la stanza.

Atem inspirò piano, poi guardò Elyos.

«Se è vero, allora non possiamo più limitarci a studiarla. Dobbiamo capire chi l’ha portata qui, e perché adesso.»

 

La Dottoressa Ishi spostò un fascicolo verso di loro.

«C’è un nome negli appunti: un certo Professor Alden, inglese. Ha lasciato l’Egitto subito dopo il ritrovamento, e pare che la tavoletta sia arrivata qui tramite la sua fondazione. Nessuno sa dove sia adesso.»

 

Atem toccò il fascicolo, sentendo una fitta improvvisa, come un ricordo che non apparteneva a questa vita.

Digrignò i denti stringendo le mani vicino al cuore,e  immediatamente le mani di Elyos si povrapposero alle sue.

«Lo troveremo,» disse piano, ritrovando il suo ritmo respiratorio. «E se quella pietra ha scelto di risvegliarsi, allora… ci racconterà il perché.»

 

Ishi sorrise lievemente.

«Attenti, però. Le pietre non parlano con parole. Raccontano con sogni.»

 Elyos lo guardò: la luce del neon gli disegnava sul volto due metà diverse — una giovane, limpida, e una più antica, piena di ombre.

Capì allora che quella notte non avrebbe dormito.

Il leone si era svegliato, e il vento aveva appena cominciato a soffiare.

 

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### **Capitolo 17 – Il sogno del leone**

 

Il silenzio era profondo, come solo le notti in cui la pioggia ha smesso di cadere sanno essere.

Atem dormiva sul divano, la testa reclinata su un cuscino troppo grande per lui.

La coperta che Elyos gli aveva sistemato scivolava piano sul pavimento, mentre un raggio di luna si rifletteva sul vapore ormai tiepido del cioccolato.

Fu allora che il sogno cominciò.

 

Non un incubo, ma un richiamo.

Un campo di sabbia dorata, vasto come il mare, e al centro — il trono.

Vuoto.

Intorno, la luce del tramonto tingeva tutto di rame e miele.

Atem camminava scalzo, la sabbia che gli sfiorava i piedi, e nel silenzio sentì la voce.

Non proveniva da fuori, ma da dentro.

«Non temere la quiete, giovane re. Il deserto non è vuoto: è memoria.»

 

Davanti a lui, nella sabbia, un simbolo cominciò a brillare — lo stesso inciso sulla tavoletta che aveva visto al museo.

Ma ora non faceva paura: emanava calore, come una promessa.

«Tu non sei tornato per combattere» disse la voce, «ma per ricordare. Non c’è colpa nel respiro, solo vita che continua in un’altra forma.»

 

Atem si inginocchiò.

Per la prima volta non pianse, non tremò.

Si limitò a chiudere gli occhi e a lasciarsi attraversare da quella luce, sentendo che dentro di lui qualcosa si scioglieva, come neve al sole.

 

E mentre la visione svaniva, l’ultima cosa che vide fu una figura in lontananza — una donna con i capelli corti mossi dal vento, che lo osservava con un sorriso calmo.

“Elyos…” mormorò.

E capì che, ovunque andasse, quella presenza sarebbe rimasta.

 

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### **Capitolo 18 – L’alba del respiro**

 

La luce filtrava pigra tra le tende, accarezzando la stanza con i primi raggi dell’alba.

L’odore del caffè si mescolava a quello della pioggia che ancora evaporava dal balcone.

Elyos, in vestaglia, si muoveva in silenzio per non svegliarlo: un gesto che ormai le veniva naturale.

 Sul divano, Atem dormiva ancora, rannicchiato sotto la coperta come un cucciolo.

Il suo viso era disteso, finalmente libero da quella tensione sottile che di solito gli increspava la fronte.

Solo il medaglione — ormai privo di luce — giaceva accanto a lui, come un testimone muto di qualcosa accaduto altrove.

 

Elyos si fermò accanto a lui, sorseggiando piano la sua tazza.

“Stanotte hai viaggiato, vero?” mormorò con un sorriso.

Non serviva una risposta.

Lo capiva dal ritmo calmo del suo petto, da quell’ombra di pace che ora gli addolciva i tratti.

 

Atem si mosse appena, aprendo lentamente gli occhi.

«È mattina?» sussurrò, la voce ancora velata di sonno.

«Già da un po’. Ma puoi dormire ancora, se vuoi.»

 

Lui si tirò su, sfregandosi gli occhi come farebbe un bambino.

«No… ho fatto un sogno.»

Si guardò attorno, come per assicurarsi che fosse davvero sveglio.

Poi, dopo un lungo silenzio, aggiunse:

«Credo di aver capito perché sono tornato.»

 

Elyos non chiese nulla.

Si limitò a sedersi accanto a lui, poggiandogli una mano tra i capelli ancora scompigliati.

«Allora è stato un sogno importante.»

 

Atem annuì piano, fissando la finestra.

Fuori, il sole saliva lento, dissolvendo la nebbia in scie dorate.

«Sì. Ma… non era solo un sogno. Era come se… il deserto mi parlasse. E c’eri anche tu.»

«Io?» chiese Elyos, sorpresa ma con un sorriso tenero.

«Sì. Ma non eri triste. Sorridevi. E mi hai fatto capire che… non tutto ciò che si perde è finito davvero.»

 

Lei rimase in silenzio per un momento, poi lo abbracciò piano, senza dire una parola.

E lui si lasciò andare a quell’abbraccio, come chi finalmente smette di lottare contro la corrente.

 

Sul tavolo, due tazze di cioccolata calda fumavano ancora, dimenticate.

Eppure, in quella quiete fragile e perfetta, nessuno dei due aveva bisogno di nient’altro.

 

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### **Capitolo 20 – Il nome nella sabbia**

 

Il fascicolo era sottile, ma bastò uno sguardo per accendere la scintilla negli occhi di Atem.

Elyos lo aprì sul tavolo, spostando le tazze vuote di cioccolata.

Le pagine odoravano di carta vecchia e polvere di viaggio.

«Eccolo qui,» disse piano. «Professor Arthur Alden, archeologo britannico, ultimi scavi nel deserto di Wadi el-Res. Disperso durante una tempesta di sabbia… vent’anni fa.»

 

Atem sfiorò il nome con un dito.

Non c’era tristezza nei suoi occhi, ma un lampo deciso, come se avesse appena sentito una voce lontana.

«Non è disperso,» mormorò. «È ancora parte del legame. E ci sta aspettando.»

 

Elyos sorrise piano. «Hai di nuovo quello sguardo, piccolo re. Quello da ‘non mi fermerò finché non avrò trovato la verità’.»

 

«Forse perché la verità non è solo sua,» rispose lui, alzandosi. «È anche mia. Se quella pietra è stata riportata alla luce, è perché c’è ancora qualcosa da purificare. Il mondo non dimentica le ferite del tempo finché non vengono guarite.»

 

Sul fondo del fascicolo c’era una fotografia ingiallita: un uomo con un cappello a tesa larga, in piedi accanto a una lastra di pietra coperta da sabbia.

Dietro di lui, inciso su un muro, lo stesso simbolo dorato della tavoletta.

Ma accanto al segno, Elyos notò un’iscrizione che non era stata trascritta.

«Atem, guarda qui. Puoi leggerlo?»

 

Lui si chinò.

Le sue dita seguirono i tratti delle lettere come se le avesse incise lui stesso, millenni prima.

Poi tradusse, la voce più bassa, ma ferma:

«‘Quando il respiro del re incontra il respiro del mondo, la bilancia tornerà in equilibrio.’»

 

Elyos lo fissò. «Sembra… una profezia.»

 

«O un promemoria,» rispose lui, con un mezzo sorriso. «Forse il mondo non ha bisogno di un re, ma di qualcuno che ricordi come si respira in pace.»

 

Le sue parole lasciarono un silenzio pieno di vita.

Poi, quasi in un gesto automatico, si voltò verso la finestra.

La città sotto di loro brillava come un mare moderno, e nel riflesso del vetro, per un attimo, Elyos vide non il ragazzo, ma il faraone — lo stesso sguardo, la stessa postura, la stessa calma regale.

 

«Andremo a cercare questo Alden?» chiese lei.

 «Sì,» rispose Atem. «Ma non per chiedere. Per capire. Ogni passo che facciamo ci avvicina a quello che devo sistemare, dentro e fuori di me. Finché anche il deserto potrà dormire di nuovo.»

 

Elyos rise piano, quella risata dolce e luminosa che per lui era ormai casa.

«Allora mi preparo. Perché conosco te, piccolo re: quando decidi di muoverti, il mondo intero deve tenere il passo.»

 

Lui le sorrise, con quella luce viva che aveva ritrovato solo da poco.

«Non è il mondo che deve seguirmi, zia. È il vento. E io… ho di nuovo voglia di sentirlo.»

 

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### **Capitolo 21 – Il vento del ritorno**

 

La mattina successiva, la casa era immersa in una calma quasi irreale.

Elyos aveva passato la notte a fare liste: documenti, medicine, un cambio di vestiti, la guida del deserto.

Atem invece sembrava muoversi in un ritmo tutto suo — misurato, concentrato, ma con un lampo di vita negli occhi che lei non gli vedeva da tempo.

 

Sul tavolo, la foto del Professor Alden era circondata da appunti e cartine logore.

Una linea tracciata a matita univa Alessandria al Wadi el-Res, come una rotta tracciata sulla mappa di un veliero.

 

«Sai cosa mi ricorda?» disse Elyos, allungando un dito sulla linea. «Un viaggio in mare. La meta la vedi solo alla fine, ma intanto è il vento che ti guida.»

 Atem sollevò lo sguardo, incuriosito. «Vento… mi piace.»

Poi, come per caso, aprì la finestra.

 

Un refolo d’aria entrò di colpo, attraversando la stanza.

I fogli si sollevarono, il vapore del caffè danzò come un piccolo spirito, e uno dei libri aperti si chiuse con un tonfo leggero.

Elyos scoppiò a ridere. «Ecco, vedi? Persino lui è d’accordo.»

 

Ma Atem era rimasto immobile, lo sguardo perso nel vuoto.

«È lo stesso suono,» mormorò.

«Quale suono?»

«Il respiro del deserto. Quando soffiava tra le colonne del tempio, portava con sé le voci degli antichi. Dicevano che era il modo in cui gli dei ricordavano ai re chi erano davvero.»

 

Elyos lo osservò in silenzio, mentre il vento le scompigliava i capelli.

C’era in lui una fierezza nuova, antica e fresca allo stesso tempo — come se stesse tornando a essere ciò che era sempre stato, ma con un’anima più leggera.

 «Allora ascoltiamolo,» disse lei piano. «Lasciamo che il vento ci indichi la via.»

 Atem sorrise, posando una mano sulla mappa.

«Ogni rotta ha il suo vento, Elyos. E questo… è il mio.»

 

Fu in quel momento che la porta bussò.

Un corriere, un pacco sigillato con un timbro universitario.

Elyos firmò, curiosa. 

Dentro, c’era una piccola bussola d’ottone, avvolta in carta velina.

Sul retro, incisa con cura, una frase in inglese antico:

 > *“For those who sail not the sea, but the sand.”*

> — *Alden*

 

Elyos e Atem si scambiarono uno sguardo lungo, complice.

«Il vento ci ha già trovato,» disse lei, con un sorriso che sapeva di promessa.

«Allora salpiamo.» rispose lui, stringendo la bussola nella mano.

 Fuori, una folata improvvisa spalancò di nuovo la finestra.

Le tende si gonfiarono come vele, e per un istante la stanza sembrò davvero muoversi — non verso un luogo, ma verso un destino.

 

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### **Capitolo 22 – Rotta verso il Wadi**

 

L’aereo lasciò alle spalle la città, e sotto di loro il Mediterraneo brillava come una distesa di vetro liquido.

Elyos guardava fuori dal finestrino, ma il suo sguardo andava più in là: verso il ragazzo accanto a lei, che non riusciva a staccarsi dal panorama.

 

«È tutto… acqua?» chiese Atem, la voce un misto di incredulità e timore.

«Tutta,» rispose Elyos, sorridendo. «E sotto quell’acqua vive un mondo intero.»

 

Per un lungo tratto rimasero in silenzio, finché il comandante non annunciò una breve deviazione per il vento favorevole.

Fu allora che, guardando verso il basso, Elyos vide qualcosa: sagome argentee che danzavano vicino alla superficie, saltando e scomparendo tra le onde.

 

«Guarda!» disse, toccandogli il braccio.

 

Atem si chinò, e per un attimo il suo viso si illuminò come quello di un bambino.

«Sono… vivi?»

«Sì, sono delfini. Viaggiano in gruppo, come piccole tribù. Amano seguire le navi e gli aerei bassi, forse per curiosità, o forse per giocare.»

 


Un sorriso ampio gli si aprì sul volto.

«Sembrano spiriti del Nilo… ma più felici.»

 Elyos rise piano. «In fondo, lo sono. Il mare ha i suoi guardiani, come il tuo fiume.»

 Poi, mentre l’aereo virava verso sud, un lampo lontano attirò lo sguardo di Atem: una scia di spruzzi, e un getto d’acqua altissimo che si apriva come un fiore.

Lui rimase senza fiato.

«Cosa… cos’è?»

 

«Una balena,» rispose Elyos, commossa da quella reazione. «Un gigante buono. Respira come noi, ma vive tra le profondità. Quando riemerge, soffia via l’acqua per poter inspirare ancora.»

 

Atem non rispose subito.

Continuò a guardare, gli occhi lucidi.

«È bellissimo… così grande, eppure così gentile. Come se il mondo stesso respirasse con lei.»

 Elyos si voltò verso di lui.

«Forse è proprio così, Atem. Il mare, il vento, la terra… tutto respira insieme. Noi ci limitiamo ad ascoltare.»

 

Quando il getto della balena si dissolse nell’aria, lui chiuse lentamente gli occhi, posando la fronte contro il vetro.«Allora… anche io voglio imparare a respirare così. Non come un faraone, ma come il mondo.»

 

Elyos gli prese la mano, e lui gliela lasciò stringere senza parole.

Fu in quel momento che capì che il viaggio era appena cominciato — non quello verso il deserto, ma quello verso la pace.

 

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 ### **Capitolo 23 – Le dune del ritorno**

 

L’aereo toccò terra con un leggero sobbalzo.

Fuori, l’aria era diversa: calda, densa, profumata di sole e di spezie.

Elyos scese per prima, stringendo la borsa contro il petto, e quando voltò lo sguardo verso la pista vide Atem che si fermava, immobile, con gli occhi spalancati.

 

Davanti a lui si stendeva l’Egitto.

Non quello dei libri o dei musei, ma il suo — vivo, pulsante, bruciato di luce.

Il vento del deserto lo colpì in pieno viso e per un istante parve riconoscerlo.

Chiuse gli occhi e inspirò profondamente.

 «È… lo stesso respiro,» mormorò.

 

Elyos gli sorrise, posandogli una mano sulla spalla.

«Ben tornato a casa, piccolo re.»

 Lui annuì, ma non disse nulla.

Solo il modo in cui le sue dita si mossero, sfiorando la sabbia ai bordi della pista, raccontava tutto: nostalgia, stupore, un filo di paura, ma soprattutto riconoscenza.

 

Li aspettava la dottoressa Ishi, in abiti leggeri, il volto illuminato da un raro sorriso.

«Avete fatto buon viaggio?» chiese.

 Elyos rispose per entrambi. «Sì. Credo che sia stato più di un viaggio, in realtà.»

 La dottoressa annuì come se sapesse.

«Allora venite. Il campo è pronto. Il deserto è impaziente di conoscervi.»

 

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La jeep correva lungo una strada che si perdeva verso l’orizzonte.

La sabbia, mossa dal vento, disegnava onde e creste che mutavano a ogni soffio.

Atem guardava fuori dal finestrino, la bussola di Alden stretta in mano.

Ogni tanto la girava, e l’ago sembrava impazzire, come se non sapesse distinguere più il nord dal ricordo.

 «Non serve per orientarsi,» disse Ishi dal sedile davanti, senza voltarsi. «È una bussola simbolica. Si dice che indichi dove si trova la verità del cuore, non il nord magnetico.»

 Atem la fissò, serio.

«Allora funziona perfettamente.»

 Elyos rise piano. «Attento, piccolo re, con quella filosofia mi fai concorrenza.»

 

Il sole cominciava a calare quando il campo apparve all’orizzonte: tende color ocra, strumenti, torce, e in lontananza le prime sagome delle rovine.

Atem sentì il cuore battere più forte.

Non per paura, ma per riconoscimento.

Quel luogo lo chiamava.

 Quando misero piede sulla sabbia, il vento tornò a soffiare.

Un suono profondo, basso, che attraversava le dune come un canto antico.

E per un momento, Elyos giurò di aver udito qualcosa tra le folate — una parola, o forse solo un nome.

 > **Atem.**

 

Lui si voltò, come se avesse sentito anche lui.

Ma sorrise soltanto.

«Sì… sono qui.»

 

Elyos lo guardò, e in quel sorriso vide la pace che aveva sempre sperato per lui.

Perché forse il viaggio non era per tornare indietro — ma per imparare, finalmente, a restare.

 

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### **Capitolo 24 – Il canto della sabbia**

 

Il campo si era assopito sotto la luce dorata del tramonto.

Solo il vento continuava a muoversi, carezzando le dune e i resti di colonne ormai spezzate.

Atem camminava da solo tra le rovine, i piedi affondati nella sabbia calda, la bussola del dottor  Alden appesa al collo come un talismano.

 Non c’era paura nel suo passo, solo silenzio.

Ogni pietra sembrava conoscerlo, ogni ombra sembrava chinarsi al suo passaggio.

E più avanzava, più il mondo moderno scompariva — finché non restarono che la luce, il vento e il respiro del tempo.

 

Elyos lo seguiva a distanza, rispettando quel momento.

Sapeva che non poteva condividere del tutto quella memoria, ma poteva **esserci**, pronta a tendere una mano se il passato avesse fatto troppo male.

 

Atem si fermò davanti a una parete incisa, annerita dal tempo.

Sotto la sabbia affioravano geroglifici e disegni quasi cancellati.

Le sue dita tremarono mentre tracciava i contorni di un volto: il profilo di un giovane re con la corona in testa e un grosso manufatto trangolare in mano.

 «Ero io…» mormorò.

La voce gli uscì come un soffio.

Non c’era vanità, solo stupore, e un’ombra di tristezza.

«Avevo dimenticato il suono delle mie stesse pareti.»


 Intorno a lui, il vento si fece più forte, sollevando la sabbia come un velo.

Nel fruscio, Elyos ebbe l’impressione di udire parole — non chiare, ma dolci, come un coro lontano.

Atem chiuse gli occhi e restò immobile.

Quando li riaprì, il suo sguardo era pieno di luce.

 «Mi stanno parlando, Elyos,» disse piano. «Non sono solo pietre. Raccontano ciò che non è stato distrutto.»

 Si chinò, raccolse un frammento di ceramica, lo rigirò tra le dita.

Sul bordo, una figura minuscola: un fiore di loto, simbolo della rinascita.

Sorrise.

«Questo lo tenevo sul tavolo vicino al letto… la prima cosa che guardavo ogni mattina.»

 

Poi, improvvisamente, si irrigidì.

Un’ombra scura attraversò il suo viso.

Aveva toccato un altro frammento, coperto di sabbia, più grande, annerito dal fuoco.

Lo sollevò.

C’erano incisioni spezzate, e una parola incompleta — ma Elyos la vide chiaramente: *tenebra*.

 

Il vento si alzò ancora, più cupo, e l’aria odorò di tempesta.

Atem rimase fermo, la sabbia che gli frustava il viso, gli occhi fissi su quel frammento.

 

«Questa è la parte che non ricordavo,» disse, quasi tra sé. «La notte in cui tutto bruciò. La paura. Il buio che mi prese. La decisione di....Ma non importa…»

Alzò lo sguardo verso il cielo che si incendiava di arancio e porpora.

«Non importa, perché adesso so che non è finita. Posso ancora purificare quello che resta. Le ombre, anche loro, hanno bisogno di luce.»

 

Elyos gli raggiunse il fianco, sfiorandogli il braccio nudo.

«Hai fatto pace con le tue rovine, piccolo re.»

 

Atem inspirò a fondo, lasciando che il vento gli entrasse nei polmoni.

«No,» rispose piano. «Ho appena cominciato ad ascoltarle.»

 

Il vento smise di soffiare.

Solo allora, nel silenzio, si udì un suono leggero, quasi un mormorio tra le pietre:

un canto.

Un canto antico e sommesso, che parlava di vita, di morte e di ritorno.

Il **canto della sabbia**.

 

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Atem rimase ancora un momento immobile, poi si chinò e raccolse il fiore di loto.

Lo tenne nel palmo, leggero come un sospiro.

La luce del tramonto lo attraversava, e per un istante parve che i petali incisi riflettessero il colore dell’alba.

 

«Non appartiene più alle rovine,» disse piano. «Appartiene al ricordo. E il ricordo, ora, sono io.»

 Elyos gli sorrise, accarezzandogli la frangia scompigliata dal vento caldo del deserto.

«Allora portalo con te, piccolo re. Ti appartiene.»

 

Lui annuì.

Infilò con delicatezza il frammento in una piccola tasca interna della tunica, vicino al cuore.

Poi si voltò verso il deserto che ormai si spegneva nella sera.

«Non lascerò che si perda di nuovo. Finché avrò respiro, ricorderò chi siamo stati… e chi possiamo ancora essere.»

 

Il vento soffiò lieve, come per dargli ragione


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### **Capitolo 25 – Il segno del passaggio**

 

Il vento si era calmato, e il silenzio che rimase non era vuoto: era quiete.

Atem guardava la sala del trono con occhi diversi.

Non più come un sovrano che torna a reclamare il suo posto, ma come un viaggiatore che comprende di aver finito la sua rotta.

 

Sulla pietra del trono, le sue dita cercarono un punto liscio, ancora intatto.

Prese un frammento di ceramica — il loto — e con il bordo incise un piccolo segno: una spirale semplice, aperta verso l’alto.

Niente geroglifici, nessun nome. Solo la traccia del movimento, del **passaggio**.

 

«Cosa stai scrivendo?» chiese Elyos, la voce appena un soffio.

«Nulla che si possa leggere,» rispose lui. «Solo qualcosa che si possa sentire.»

 

L’aria si mosse piano, come per accompagnare quel gesto.

Elyos pensò che, se mai qualcuno fosse entrato lì nei secoli futuri, avrebbe sentito la stessa calma che ora riempiva la stanza.

 Atem si alzò.

Non sembrava più portare il peso dei secoli, ma la leggerezza di chi ha restituito ciò che doveva.

Si voltò verso il trono e chinò appena il capo — un saluto, non un addio.

Poi guardò Elyos.

«Andiamo. Ho lasciato quello che dovevo. Adesso il deserto può dormire.»

 

Elyos annuì, stringendogli la mano.

«E tu puoi continuare a camminare.»

 

Mentre uscivano, il sole al tramonto filtrò dalle fessure tra le colonne, disegnando la spirale incisa di luce dorata.

Per un istante, parve muoversi.

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### **Capitolo 26 – La voce del vento e della pietra**

 

Il deserto era calmo, ma non muto.

Dopo il tramonto, il vento si era placato, lasciando nell’aria un silenzio denso, carico di presagi.

Elyos aiutava Ishi a sistemare le carte quando un suono sordo, breve, corse sotto i loro piedi: non un rombo, ma come un battito profondo nella sabbia.

 

«Hai sentito?» domandò Elyos.

«Forse un assestamento,» rispose Ishi, ma la voce le tremava un poco.

 

Atem si avvicinò, incuriosito.

Si chinò, raccolse un pugno di sabbia e lo lasciò scivolare piano.

Ogni granello gli sembrò più freddo del normale, come se trattenesse un ricordo.

 

«Questa terra… ha assorbito paura,» disse piano.

Non c’era magia in quelle parole, solo consapevolezza.

«Qualcuno l’ha toccata con troppo desiderio di sapere. Il deserto ha trattenuto la sua impronta.»

 

Ishi tacque, poi accese il rilevatore di densità.

Sul monitor comparve una piccola anomalia — una cavità, non più profonda di due metri, con una temperatura più bassa del terreno circostante.

 

Elyos si chinò accanto a lui.

«Può essere il professore?»

 Atem non rispose subito.

Inspirò profondamente, come chi si prepara ad ascoltare qualcosa che non si dice con le parole.

Poi posò il palmo a terra.

«Non so dove sia… ma sento che non è andato via. È rimasto *tra due silenzi*.»

 

Ishi lo guardò, colpita da quella definizione.

«Tra due silenzi?»

 «Sì,» rispose Atem. «Tra il silenzio dei vivi e quello dei morti. Il suo respiro si è perso, ma la sua memoria è qui. Forse possiamo ancora restituirgliela.»

 Elyos abbassò la voce.

«E come?»

 

«Ascoltando meglio. Non la sabbia, ma ciò che vuole dirci.»

 Il vento si alzò appena, un soffio leggero, e la torcia proiettò sulla sabbia l’ombra del piccolo re inginocchiato.

Niente luce, niente prodigi: solo lui, un ragazzo che aveva imparato a sentire.

 

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### **Capitolo 27 – Il bordo dell’abisso**

 

La notte era ferma, come se il deserto avesse smesso di respirare.

Le torce del campo proiettavano un cerchio di luce tremolante intorno a loro.

Ishi controllava le apparecchiature, ma i dati sembravano impazziti: linee che salivano e scendevano, valori incoerenti.

 

«Sotto di noi c’è qualcosa,» disse, il tono tra il razionale e l’incredulo.

«O qualcuno,» aggiunse Elyos, guardando Atem.

 

Il giovane si inginocchiò accanto al punto in cui la sabbia sembrava più compatta.

Non si muoveva, ma emetteva un calore sottile, come se trattenesse il fiato.

Atem posò la mano. Un brivido gli attraversò il braccio, non di freddo, ma di memoria.

 

«Non scavate,» disse piano. «Ascoltate.»

 Elyos e Ishi si zittirono.

Un suono basso, quasi impercettibile, cominciò a vibrare sotto di loro: non un lamento, ma una serie di parole confuse, come sussurrate attraverso l’acqua.

 

«…non volevo… capire… troppo…»

 

Elyos sussultò.

«Il professore…?»

 Atem annuì lentamente. «Sì. È intrappolato tra due desideri: conoscere e tornare. Ma non riesce più a distinguere l’uno dall’altro.»

 L’aria si fece più fredda. 

La sabbia cominciò a muoversi, non come una tempesta, ma come se un respiro profondo la sollevasse dall’interno.

Un’ombra, indistinta, prese forma per un istante: non un fantasma, ma una sagoma di polvere e luce.

 Atem si alzò.

«Non vuole farmi del male. Ma mi chiama. Crede che io possa condurlo oltre.»

 

Elyos fece un passo avanti. «E puoi?»

 Lui esitò.

«Sì… ma se rispondo al richiamo, potrei seguirlo. E non tornare

 

Il vento si alzò di colpo, portando con sé parole spezzate.

 > “Mostrami… il confine…”

 

Atem chiuse gli occhi.

Il suo volto si distese, sereno.

«Non posso. Perché il confine non è mio. È tuo.»

 Per un istante, tutto si fermò.

Poi la sabbia collassò dolcemente, come se un peso invisibile fosse stato deposto.

La temperatura risalì, il vento si calmò, e tra i granelli emerse un oggetto: un piccolo taccuino avvolto in stoffa cerata.

 Ishi lo raccolse con mani tremanti.

Sulla copertina, una frase incisa a mano:

 > “A chi avrà il coraggio di fermarsi prima del limite.”

> — *Alden*

 

Elyos guardò Atem.

«Ce l’hai fatta.»

 Lui abbassò lo sguardo, la voce calma ma profonda.

«Non io. È stato lui. Ha ricordato che esistono cose che non devono essere svelate, solo rispettate.»

 

Il vento passò tra loro come un saluto.

Lontano, le stelle parvero brillare un po’ di più.

 

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### **Capitolo 28 – Il Taccuino di Alden**

 

Fuori, il deserto urlava.

Il vento si scagliava contro la tenda con colpi secchi, trascinando la sabbia come un mare in tempesta.

Dentro, la luce tremolante della lampada a olio disegnava cerchi dorati sulle pareti di tela, mentre l’aria profumava di spezie e silenzio.

 

Atem sedeva a gambe incrociate, il diario stretto tra le mani.

Non lo apriva, non ancora. 

Lo fissava come si guarda qualcosa di sacro, di vivo.

Le sue dita, scure,sottili e forti, tremavano appena, e nella penombra i riflessi dorati della copertina sembravano pulsare come un cuore antico.

 

Elyos, seduta accanto a lui, osservava in silenzio.

Il rumore del vento pareva lontano, quasi ovattato.

Le bastò allungare la mano e sfiorargli la punta dei capelli — un gesto lieve, appena un soffio, ma sufficiente a riportarlo qui, nel presente.

 «Non avere paura di quello che troverai,» sussurrò.

«Non sei più solo.»

 

Atem inspirò piano, poi sollevò lo sguardo verso di lei.

Nei suoi occhi non c’era più il terrore del ragazzo, ma la calma fragile di chi ha capito il peso del proprio destino.

Fece un cenno, aprendo lentamente la copertina del taccuino.

 

Le pagine odoravano di sabbia, d’inchiostro asciutto e di un tempo sospeso.

La prima riga, scritta con una calligrafia incerta, diceva:

 

> *“Se qualcuno leggerà queste parole, sappia che la conoscenza non è luce, ma fuoco. E che chi non sa scaldarsi senza bruciarsi, rischia di restare cenere.”*

 

Atem sollevò lo sguardo verso Elyos, come in cerca di un significato.

Lei sorrise piano, pur sentendo un brivido correre lungo la schiena.

«Continua, piccolo re. Il deserto ha ancora qualcosa da raccontarci.»

 

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 Il vento urlò più forte, la fiamma della lampada si piegò di colpo.

Le lettere sulla pagina sembrarono mutare forma, diventare segni in movimento, neri come cenere.

Atem sussultò. Una forte sensazione di gelo gli attraversò la schiena.

 

«ARGH… qualcosa mi tira dentro!» 

La sua mano destra DENTRO la pagina fino al polso...

 

Elyos lo afferrò per le spalle. 

Sentiva la tensione nei muscoli, la pelle fredda.

«Guardami negli occhi, leoncino, non il libro!»

 

Le pagine si contorcevano, e dal buio parve salire un sussurro: un suono di disperazione che non era umano.

Era la paura del professore, la sua ossessione, tornata a chiedere un’altra mente, un’altra anima.

 

Elyos lo serrò a sé e lo tiro' indietro con forza.

Non fu un gesto eroico, solo istinto. Le sue braccia si chiusero intorno a lui con forza come un mantello.

«Guardami negli occhi, tesoro. Sei qui, con me. Niente ti porterà via!»

 

Il vento all’esterno si placò un poco, la luce tornò a tremolare.

Atem tremava, ma il gelo lentamente si sciolse.

 Le parole sul foglio si immobilizzarono di nuovo, silenziose.

 «L’amore è più forte della paura,» mormorò Elyos, senza sapere se parlava a lui o al vento..o al libro stesso e alle sue parole scritte con mano incerta.

 

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### **Capitolo 29 – Il mattino dopo il vento**

 

L’alba filtrava tra i lembi della tenda come acqua chiara.

Il vento, dopo la furia della notte, pareva essersi addormentato.

 

Elyos aprì gli occhi piano: Atem era accanto a lei, la testa appoggiata al suo braccio, mentre la mano di lei era intorno al suo fianco, come se nel sonno avesse voluto abbracciarlo appena.

Per un attimo rimase così, immobile, come una madre che controlla che il respiro del proprio figlio sia ancora calmo, profondo e regolare.

 

Quando lui si mosse, la luce gli colpì gli occhi e il viola delle iridi si accese di riflessi dorati.

Si imbarazzò un poco, vedendosi così...accennando un sorriso.

«Buongiorno, zia.»

 

Elyos rise piano, spettinandogli la frangia dorata.

«Buongiorno a te, piccolo re. Hai dormito finalmente come un ragazzo normale.»

 

Atem annuì, guardandosi le mani.

«È strano… non ricordavo quanto potesse essere bello semplicemente svegliarsi senza dover combattere qualcosa.»

 Una voce si fece sentire da fuori.

«Se avete finito di dormire come due gatti al sole, ho un regalo per voi.»

 

La dottoressa Ishi entrò nella tenda con una tazza fumante di caffè e un fascio di fogli.

«Ho passato la notte a studiare il taccuino di Alden. Non tutto è leggibile, ma credo che alcune pagine reagiscano alla luce, come inchiostro sensibile.»

 

Atem si raddrizzò, subito attento.

«Vuol dire che il diario non ha ancora finito di parlare.»

 

Ishi fece un cenno.

«Forse non nel modo che immagini. Guarda qui.»

Appoggiò il taccuino sul tavolo di legno e sollevò il lembo della tela, lasciando entrare un raggio di sole.

Sulle pagine bianche, linee e simboli cominciarono lentamente a emergere, come risvegliati dal calore.

 Elyos trattenne il respiro, memore degli avvenimenti della notte passata, mentre il taccuino sembrava vibrare sotto la luce del sole, come se stesse chiamando ancora.

«È un codice?»

 Ishi scosse la testa.

«Non credo. Sembra più… una mappa di suoni, come se ogni segno rappresentasse una vibrazione. Forse è ciò che Alden intendeva quando scriveva del fuoco della conoscenza: non leggere, ma *ascoltare* la materia stessa.»

 

Atem posò la mano sul bordo della pagina, sentendo un leggero fremito sotto le dita.

Non c’era paura nei suoi occhi, ma stupore.

«Forse il deserto non voleva essere compreso. Solo ricordato.»

 

Elyos  sorrise piano.

«Allora continueremo a ricordare. Insieme.»

 Fuori, il vento tornò a soffiare, ma ora non urlava più. 

Era solo il suono di un nuovo giorno carico di novità.

La sabbia luccicava sotto i primi raggi del sole, e tutto intorno sembrava respirare, calmo e pieno di possibilità.

 

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### **Capitolo 30 – la scelta**

 

 

Poco dopo, la dottoressa Ishi rientrò nella tenda, stropicciandosi gli occhi.

«Il taccuino di Alden… si sta dissolvendo.»

Lo teneva tra le mani, e dalle sue dita cadevano piccoli granelli dorati di sabbia, che luccicavano come polvere di stelle.

 

Atem si avvicinò e lo sfiorò con delicatezza.

«Sta tornando a casa,» disse piano.

Elyos capì che non parlava solo del diario.

 

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Uscirono insieme, nel silenzio del mattino.

Davanti a loro, le rovine sembravano nuove, illuminate da una luce che non veniva dal sole.

Dalla sabbia, lentamente, prese forma una figura: alta, regale, avvolta in vesti di luce.

 

Elyos trattenne il respiro.

Atem fece un passo avanti.

 

«Padre…»

 

Il vecchio sovrano lo osservò a lungo, con occhi pieni d’orgoglio e malinconia.

«Credevo che fossi tornato per riprendere il tuo trono,» disse, la voce come pietra che ricorda il fuoco.

«Il regno ha bisogno del suo faraone.»

 

Atem chinò il capo.

«Un tempo, anch’io lo credevo. Ma il mondo che conoscevo è diventato sabbia, e la sabbia appartiene al vento. Io non posso comandarla, posso solo onorarla

 

Il padre si fece vicino, e per un istante la sua ombra coprì il volto del figlio.

«Hai ereditato la mia forza… ma la usi per rinunciare.»

 Atem alzò lo sguardo.

Non c’era ribellione nei suoi occhi, ma una calma nuova.

«No, padre. La uso per scegliere. È ciò che tu mi hai insegnato.»

 

Un lungo silenzio li avvolse. Poi il vecchio re annuì, appena.

«Allora il mio compito è finito. Vai, figlio mio. Il tempo degli uomini ti ha restituito la pace che io non ho saputo darti.»

Posò una mano sulla spalla del ragazzo. Poi svanì, dissolvendosi nella luce come il canto di un antico rito.

 

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Elyos lo guardò, le lacrime che brillavano senza cadere.

«È tempo, vero?»

 Atem sorrise, dolcemente.

«Sì. Ma non sarà un addio.»

 Dalle sue vesti estrasse un piccolo foglio ingiallito, piegato con cura.

Lo mise nella mano di Elyos e chiuse le dita attorno.

«Quando lo leggerai, saprai che ti sto pensando.»

 

Lei lo strinse forte, incapace di parlare.

Un lampo dorato li avvolse entrambi.

Poi, quando la luce svanì, la donna rimase sola davanti alla soglia di sabbia che ondeggiava come acqua.

Sotto le dita, il foglio si aprì da solo:

in geroglifici semplici, chiarissimi, c’era scritto —

 

> *“Ci rivedremo presto, mamma.”*

 

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Giorni dopo, Elyos e la dottoressa Ishi erano sedute sull’aereo che le riportava verso casa.

Fuori dal finestrino, il deserto si stendeva come un mare d’oro.

Ishi dormiva, esausta. 

Elyos fissava il panorama, silenziosa.

 

Fu allora che lo vide.

Un bagliore lieve, appena accennato, correva accanto al finestrino: come se una piccola scintilla la stesse accompagnando per un tratto di viaggio.

Il riflesso si fece più chiaro, disegnando per un istante un profilo familiare, un sorriso giovane, pieno di luce.

 

Elyos chiuse gli occhi, trattenendo il fiato e poi sorridendo piano.

«Lo so, piccolo mio. Sei ancora qui.»

 

Fuori, il bagliore si allontanò dolcemente, fino a confondersi con il cielo.

Il vento — lo stesso vento che aveva portato via il canto della sabbia — tornò a sfiorare le nuvole.

 

E in quel momento, Elyos sentì che, ovunque fosse, **Atem stava sorridendo con lei.**