**Capitolo 1 – Il respiro nella sabbia**
C’era un silenzio antico sotto quella sabbia.
Lei non sapeva spiegare perché, ma sentiva che ogni granello le parlava, come se custodisse un segreto dimenticato.
Quando toccò il ciondolo, un brivido le corse tra le dita: era tiepido, come se avesse appena respirato.
«Non dovresti essere qui», sussurrò una voce.
Non era un suono, era un pensiero.
Eppure lei lo udì chiaramente.
Aprì gli occhi.
Davanti a lei non c’era un fantasma, né un dio.
C’era solo un ragazzo — stanco, confuso, con lo sguardo di chi ha visto il tempo passare e non ne porta più il peso.
«Da quanto tempo dormi?» chiese lei.
«Abbastanza da dimenticare il mio nome.»
La donna sorrise piano.
«Allora, cominciamo da lì.»
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CAPITOLO 2 - **Il risveglio del Faraone**
Quando uscì dal buio del ciondolo, non era più lo stesso.
Aveva imparato a sopravvivere parlando con l’ombra del mostro che lo aveva divorato giorno dopo giorno.
Dentro di sé portava due voci: una calma e antica, l’altra affilata come una lama.
E a volte non sapeva più quale fosse la sua.
Non cercava la violenza — era la violenza a cercare lui.
Ogni volta che qualcuno lo sfidava, l’altra voce prendeva il sopravvento.
E negli occhi del ragazzo, per un istante, brillava ancora il deserto.
Lei lo capì la prima volta che lo vide tremare dopo una di quelle crisi.
Non lo giudicò, non si spaventò.
Solo gli porse la mano, come si fa con chi ha smesso di credere che esista una mano pronta ad aspettarlo.
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CAPITOLO 3 - **LE CICATRICI DEL SOLE**
La notte era silenziosa, come se il mondo trattenesse il fiato.
Sul tavolo, accanto al letto, il ciondolo brillava di riflessi dorati, e la donna lo osservava in silenzio, seduta accanto a lui.
Il ragazzo dormiva da ore, ma il suo volto era teso, segnato da battaglie che nessuno poteva vedere.
Ogni tanto mormorava parole in una lingua dimenticata.
Ogni tanto, le dita si chiudevano come per afferrare una spada invisibile.
Lei non cercò di svegliarlo.
Sapeva che certi incubi non si spezzano scuotendo una spalla, ma solo restando accanto, finché la mente smette di combattere.
Quando finalmente aprì gli occhi, nel suo sguardo c’era una confusione spaventata, come se non sapesse in quale epoca si trovasse.
Poi la vide.
E per un istante il tempo parve fermarsi.
«Sei… reale?» chiese, la voce roca.
«Più reale di quanto credi.»
Lei sorrise appena, un sorriso che non cercava di rassicurare, ma di dire: *non hai bisogno di fingere*.
Lui si voltò, lo sguardo perso nel buio oltre la finestra.
«Dentro di me c’è ancora il mostro. Lo sento respirare.
Ogni volta che provo rabbia, ogni volta che temo di perdere, lui torna… e io sparisco.»
Lei non rispose subito.
Poi posò una mano sulla sua spalla, leggera come sabbia.
«Allora non combattere contro di lui.
Ascoltalo.
Forse vuole solo che qualcuno lo veda.»
Lui la guardò, incredulo, ma nei suoi occhi comparve per la prima volta un barlume di quiete.
Forse, dopo cinquemila anni, qualcuno stava finalmente parlando al ragazzo, non al faraone.
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Capitolo IV – Il silenzio dopo la tempesta
Nei giorni che seguirono, la casa tornò a respirare.
Lui restava spesso in silenzio, seduto davanti alla finestra, come se cercasse di ricordare un volto scomparso nella sabbia.
Lei non lo incalzava: gli lasciava spazio, come si lascia spazio alla pioggia quando deve cadere.
A volte, però, gli portava una tazza di tè caldo, e lui la prendeva con un cenno appena accennato.
Quelle piccole cose — il profumo del pane, il rumore dell’acqua che scorreva, la luce del mattino — sembravano ferirlo e curarlo insieme.
Era come se ogni cosa semplice gli ricordasse ciò che aveva dimenticato di essere: vivo.
Una sera, mentre il vento muoveva le tende, parlò.
«Ho visto città sorgere e cadere.
Ho visto il deserto inghiottire i nomi di chi amavo.
Tutto quello che ho fatto per proteggere il mio regno… non è servito a nulla.
Il male è tornato, anche senza di me.»
Lei lo ascoltò, poi si avvicinò piano.
«Eppure tu sei ancora qui. Forse questo significa qualcosa.»
Lui la guardò, come se non avesse mai considerato quell’idea.
«Che cosa potrei significare, io?»
Lei sorrise, quella volta con dolcezza vera.
«Che anche il sole, dopo la notte più lunga, trova sempre un modo per sorgere.»
Un silenzio profondo cadde tra loro.
Ma non era più il silenzio del dolore — era quello dell’attesa, del momento in cui un’anima decide se rimanere nell’ombra o fare un passo verso la luce.
E lui, lentamente, inspirò.
Per la prima volta, sentì che respirare non faceva male.
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**Capitolo V – Il Primo Gesto**
La tempesta si era placata da poco.
Nella quiete che seguì, l’aria profumava di terra bagnata e pietra antica.
Elyos si era chinata a sistemare le tegole scivolate dal tetto: le sue mani, forti ma gentili, si muovevano con pazienza, come chi ricuce il mondo un frammento alla volta.
Yami la osservava dalla soglia.
Era ancora diffidente, come un animale uscito da una lunga gabbia.
Eppure c’era qualcosa nel modo in cui lei respirava — un ritmo calmo, libero da paura — che gli faceva dimenticare, per un istante, il rumore della voce dentro di sé.
«Lascialo fare a me,» disse all’improvviso.
Elyos sollevò lo sguardo, sorpresa ma senza domande.
Gli porse una tegola, poi un’altra, senza dire nulla.
Yami lavorò in silenzio, le dita tremanti che cercavano un equilibrio nuovo.
Non ricordava l’ultima volta in cui aveva costruito qualcosa invece di distruggerlo.
Ogni gesto era una sfida, ma anche una piccola vittoria.
Quando ebbero finito, Elyos si sedette accanto a lui sul gradino.
«Vedi?» disse con un sorriso lieve. «A volte non serve vincere, basta aggiustare.»
Yami restò in silenzio, lo sguardo rivolto verso il cielo che si apriva tra le nuvole.
Poi parlò piano, quasi per sé stesso.
«È strano. Pensavo di aver dimenticato come si sente… la pace.»
Elyos non rispose.
Si limitò a poggiare la mano sul legno, vicino alla sua.
Non c’era bisogno di parole: bastava quel silenzio pieno di cose semplici — la pioggia lontana, il battito del cuore, il cielo che si schiariva.
Per la prima volta, l’ombra dentro di lui tacque.
E in quel silenzio, Yami comprese che forse non tutto era perduto.
Forse c’era ancora un cammino, e qualcuno disposto a percorrerlo con lui.
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**Capitolo VI – La memoria e l’abbraccio**
La notte era tornata limpida.
Yami dormiva da poco, ma il suo respiro era agitato.
Elyos lo sentì gemere, poi sussurrare parole che non appartenevano a quel tempo: nomi di antichi amici, preghiere e colpe.
Si avvicinò, chinandosi piano.
Quando aprì gli occhi, lui era pallido, lo sguardo smarrito.
«Li rivedo ogni volta» mormorò. «Tutti quelli che ho perso. Tutto quello che non ho potuto salvare.»
Elyos non rispose subito.
Si sedette accanto al letto, le mani appoggiate sulle ginocchia, e lo lasciò parlare.
Le parole venivano a ondate: ricordi di battaglie, sacrifici, voci spezzate.
Alla fine, il ragazzo tacque, esausto.
Lei gli passò un fazzoletto e gli sfiorò la guancia con un gesto lieve, quasi materno.
«Non devi portare tutto da solo» disse piano.
Lui chiuse gli occhi, e una lacrima scivolò senza rumore.
Elyos la asciugò con il pollice, poi, d’istinto, lo attirò a sé, stringendolo un momento contro di sé come si stringe chi non si vuole far cadere.
Per un attimo il tempo si fermò: nessun titolo, nessuna maschera, solo due esseri vivi che si riconoscevano nel dolore e nella speranza.
Quando si staccò, Yami respirava più lentamente.
«È questo che si prova?» chiese, la voce roca. «A essere… capiti?»
Elyos sorrise appena.
«Sì. E a essere vivi.»
Fu un istante semplice, eppure da quel punto il buio dentro di lui cominciò a cedere.
Un passo minuscolo verso la libertà, nato da una carezza e da una lacrima condivisa.
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**Capitolo VII – L’arco e l’abbraccio**
La mattina seguente portò con sé un vento più netto, come se la terra stessa avesse deciso di ripulirsi.
Yami restava spesso fuori, vicino alle rovine dove amava sedersi a rimuginare; Elyos lo osservava dalla finestra con la tazza di tè ancora calda tra le mani.
C’era una cura nuova nei suoi gesti, un’attenzione che non era solo compassione, ma anche vigilanza.
Non fu una sorpresa, quindi, quando il pericolo arrivò: non un mostro delle antiche leggende, ma qualcosa di più imprevisto e concreto — ombre umane che frusciarono tra le colonne, figure che cercavano la solitudine per far valere la propria prepotenza.
Erano uomini col volto coperto, occhi attenti a cercare debolezze.
Cercavano quello che qualsiasi predone poteva desiderare: un oggetto antico, informazioni, o semplicemente il controllo su chiunque sembrasse vulnerabile.
Yami notò il movimento per primo.
Istinto, paura, la voce dentro che sibilava: combatti, o verrai consumato.
Ma non era solo la voce del demone; era tutto ciò che era rimasto dentro di lui dopo millenni di lotta.
La paura gli serrava lo stomaco.
Per un attimo la vecchia reazione lo spinse verso la fuga, o verso l’ira cieca.
Elyos, seduta nella stanza, sentì il cambiamento nell’aria.
Non si limitò a chiamarlo — non c’era tempo per parole che potessero appannare l’immediato.
Prese l’arco che teneva appoggiato nell’angolo, il legno già consumato dal tempo ma saldo come il suo polso.
Lo mise a tracolla con la stessa naturalezza con cui una madre tira su il cappotto di un bambino prima di uscire.
Quando uscì in cortile, il sole le colpì il profilo e le diede un’aria guerriera che nulla aveva della sua gentilezza domestica.
Yami la vide e qualcosa dentro di lui si raddrizzò: quella luce non era minaccia, era protezione.
Si alzò, goffo all’inizio, ma deciso a non essere un peso.
«Restate indietro,» disse Elyos con una voce che non era urlata ma non ammetteva replica.
Era l’ordine gentile di chi conosce il pericolo e non lo teme per sé, ma per chi ama.
Gli uomini si avvicinarono con passo felpato; uno di loro fece un passo troppo coraggioso e la sua mano cercò la tasca dove forse immaginava un tesoro.
Elyos si voltò, mise l’arco in posizione e scoccò un primo segnale: una freccia che si conficcò tra le pietre, sollevando una nuvola di polvere alle spalle degli intrusi.
Non mirava a ferire — mirava a spezzare la calma e attirare l’attenzione.
Fu rapido come un lampo.
Il suono causò confusione; un altro colpo, più preciso, sfregiò la campagna di legno di una porta, facendo capire che lì non si giocava.
Ma la vera sorpresa fu quando uno dei malintenzionati, arrabbiato, balzò in avanti con intenzione di guadagnare terreno.
Elyos non lo lasciò arrivare.
Non solo perché sapeva colpire a distanza, ma perché sapeva cosa significava toccare il fragile: quando la sua mano trovò la manica dell’uomo e lo atterrò con una presa studiata, si rivelò anche esperta nelle arti che aveva praticato per difendersi: una manovra di jujitsu che sfruttava la forza dell’altro per sbilanciarlo. L’uomo cadde come uno scatolone vuoto, più imbarazzato che ferito.
Yami, al centro della scena, guardò la donna che lo proteggeva e per la prima volta capì la profondità di quel legame.
Non era eroismo teatrale; era cura trasformata in azione.
Il suo cuore — quel cuore che per tanto tempo aveva faticato a battere con fiducia — accelerò per una ragione nuova: riconoscimento.
Non aveva bisogno di combattere per dimostrare valore; qualcuno stava scegliendo di combattere per lui.
Quando l’ultimo assalitore cercò la fuga, Elyos lo seguì con prontezza: non per vendicarsi, ma per garantire che non tornassero.
Lo immobilizzò con fermezza, parlando con voce fredda e incisiva che non ammetteva negoziazioni.
Nei suoi occhi non c’era odio, ma la decisione netta di respingere il male dal cerchio che aveva creato attorno a Yami.
Finita la brezza di violenza, il cortile tornò al suo respiro.
Elyos ripose l’arco, poi si avvicinò a Yami con passi lenti.
Lui la scrutò: c’era polvere sul suo volto, un graffio lieve sulla mano, ma soprattutto c’era quella presenza forte che non necessitava di parole.
Non sapevano se gli uomini sarebbero tornati, né quanto pericoloso fosse il mondo fuori.
Ma in quel momento non contava.
Elyos si chinò e lo abbracciò, prima un abbraccio sussurrato, poi più saldo — non un gesto d’amore romantico, ma il gesto di una zia che protegge un nipote che aveva appena ricordato di essere vivo.
Yami rispose come poté: prima tentennando, poi avvolgendo le braccia attorno a lei con la tenerezza di chi riceve una medicina.
Una lacrima scese per la guancia del ragazzo; Elyos la asciugò con lo stesso gesto di sempre, un tocco che significava: «Ti tengo qui. Non sei più solo.»
L’abbraccio durò quel tanto che bastò per ricucire un confine nella sua anima.
Qualcosa, dentro di lui, si era spostato: la volontà di non lasciare che la violenza decidesse chi fosse.
Poche azioni, poche parole, eppure decisivi: Elyos aveva mostrato che la forza poteva essere usata per proteggere, non per distruggere.
Quando si staccarono, Yami guardò l’arco ora fermo accanto al muro e sentì una curiosità tenera, quasi infantile. «Mi insegnerai?» chiese con voce incerta.
Non per combattere come prima, ma per imparare a difendere ciò che conta senza lasciarsi divorare.
Elyos sorrise, asciugandosi la polvere dal labbro. «Ti insegnerò a stare in piedi,» rispose. «E a scegliere per cosa combattere.»
Il loro primo gesto di coraggio non era stato una grande impresa, ma era stato vero.
E questo bastava, per ora.
La strada davanti a loro era ancora lunga, ma per la prima volta Yami la guardò non come una minaccia, ma come una possibilità.
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**Capitolo VIII – La memoria del tiro**
Il vento era cambiato. Non portava più la minaccia di giorni incerti, ma il profumo tenue dell’alba dopo la pioggia.
Elyos era già fuori, tra le pietre del cortile, mentre Yami osservava la sua figura muoversi lenta ma precisa. Ogni suo gesto sembrava parte di un rito antico.
Aveva posto tre frecce a terra, equidistanti, e tendeva la corda dell’arco come se respirasse con essa.
«L’arco non serve per ferire,» spiegò senza voltarsi. «Serve per misurare la distanza tra il cuore e il mondo.»
Yami non capì subito, ma il suono della frase gli restò dentro, come un’eco di qualcosa che forse conosceva già.
Quando Elyos gli porse l’arco, le sue dita esitarono.
Lo strumento sembrava leggero, eppure il peso della memoria nascosta lo fece tremare.
«Non ho mai…» cominciò, ma si fermò.
Non era vero. *Aveva.*
Da qualche parte, in un luogo che non ricordava, aveva teso corde simili, aveva respirato prima di lasciare andare.
L’arco gli parlava con la voce di un passato che non sapeva ancora ascoltare.
«Prova,» disse Elyos. «Non devi colpire nulla. Solo ascoltare il suono.»
Yami sollevò l’arco.
Le dita trovarono la corda e la trassero indietro.
Un rumore sordo, il vento che si spezzava, la sensazione del legno che vibrava contro la pelle.
Per un istante, vide un lampo nella mente: una sala dorata, colonne di luce, un giovane con gli occhi color ametista che tendeva un arco davanti a un pubblico invisibile.
Poi tutto sparì, lasciandolo con un respiro che era metà sorpresa e metà paura.
La freccia si piantò nella sabbia, a pochi metri di distanza.
Elyos si avvicinò, senza commentare.
Gli posò una mano sulla spalla, e il suo tocco bastò a fermare il tremito che ancora lo attraversava.
«Non serve ricordare tutto subito,» mormorò. «Alcune memorie tornano solo quando il cuore è pronto.»
Yami la guardò, e per la prima volta da molto tempo, sorrise.
Non un sorriso sicuro o fiero, ma quello fragile e sincero di chi comincia a riconoscersi nel mondo che lo circonda.
In quel gesto semplice — un arco, una freccia, un respiro — la guerra che aveva dentro di sé si era fatta un po’ più silenziosa.
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**Capitolo IX – Le corde spezzate e la freccia bianca**
Il giorno dopo, il vento tornò più teso.
Yami sistemava le frecce sotto il pergolato, controllando i legacci come Elyos gli aveva insegnato.
Lei, poco distante, tendeva la corda del suo arco: il gesto era lo stesso, ma negli occhi aveva un’intensità che lui non le aveva mai visto.
«Quando ero più giovane,» disse senza voltarsi, «non usavo l’arco per difendermi.
Lo usavo per respirare.
Ogni colpo nel bersaglio era un pensiero che smetteva di farmi male.»
Si girò, gli mostrò la corda: una piccola incrinatura correva da un’estremità all’altra.
«Vedi questa? L’ho tenuta anche se era rovinata.
Mi ricorda che ogni cosa può spezzarsi, ma anche che possiamo continuare a tendere, finché non impariamo di nuovo a respirare.»
Yami ascoltò in silenzio. Le sue dita toccarono il legno lucido, le corde intrecciate di nuova canapa.
Elyos prese una freccia dal fodero: il fusto era dipinto di bianco, senza piume, senza punta.
«È l’unica che non si scocca mai,» spiegò. «È quella che si tiene nel cuore. Rappresenta il perdono — per chi ci ha feriti, ma soprattutto per noi stessi.»
Le parole restarono sospese fra loro come la corda tesa tra le mani.
Yami abbassò lo sguardo, e un piccolo sorriso gli nacque sulle labbra.
«Allora… anche io potrei averne una?»
Elyos annuì. «Te la costruirai da solo, quando capirai cosa vuoi perdonare.»
Nel silenzio che seguì, Yami tornò a tendere la corda.
Non era ancora pronto, ma il suono che ne uscì non era più incerto.
Era chiaro, controllato. Vivo.
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**Capitolo X – L’Ombra e la Luce**
L’alba filtrava dalle finestre della piccola casa di pietra, un filo d’oro che cercava spazio tra le tende leggere. Elyos, seduta accanto al letto, osservava il ragazzo dormire.
Non era un sonno quieto — il suo respiro si spezzava a tratti, come se lottasse anche nei sogni.
Sul suo volto, la luce rivelava la **fragilità e la grazia** di un’anima sospesa tra due mondi.
Era magrissimo, quasi etereo.
I tratti del viso ricordavano una scultura antica: zigomi alti, labbra sottili e un’espressione serena solo in apparenza.
I capelli, una tempesta di neri profondi e punte violacee, erano attraversati da ciuffi biondi che scendevano ai lati del viso, incorniciandolo come raggi di sole imprigionati nell’ombra.
E poi, gli occhi — grandi, viola, inquieti — sembravano contenere tutto il peso dei secoli e il ricordo di un nome dimenticato.
Quando li aprì, Elyos si trovò davanti non un ragazzo, ma uno sguardo antico, abituato a comandare e a difendere, ma anche a soffrire in silenzio.
«Ti sei mosso nel sonno,» mormorò lei, con un tono di dolcezza pratica. «Temevo che l’incubo fosse tornato.»
Yami — così lo chiamava, “Spirito” — rimase in silenzio per un momento. Poi, con voce roca:
«C’è un’ombra dentro di me, Elyos. Non mi lascia mai.
Ogni volta che chiudo gli occhi, la sento ridere.
Dice che io sono come lei… che sono nato dal buio.»
Elyos chinò lo sguardo, ma non per paura.
Appoggiò una mano sulla sua spalla, sottile come quella di un uccello stanco ma ancora fiero.
«Il buio può dire ciò che vuole. Ma io ti vedo, Yami. E vedo la luce che cerchi di nascondere.»
Lui la guardò, incerto.
Nessuno lo aveva mai detto in quel modo.
Lei sorrise appena, e con un gesto lento, quasi istintivo, gli spostò una ciocca bionda dal viso.
Un gesto da madre, da sorella, da custode — e per un istante, l’ombra parve arretrare.
Fu allora che il silenzio cambiò colore.
Un fremito nell’aria, un lampo lontano.
Yami si irrigidì, gli occhi improvvisamente scuriti da qualcosa di antico e pericoloso.
«Sta arrivando,» sussurrò.
Elyos, senza chiedere altro, afferrò l’arco appeso al muro.
Le dita si mossero sicure, come se avessero sempre saputo cosa fare.
«Allora lo affronteremo insieme,» disse, con la voce ferma di chi ha già scelto da che parte stare.
Fuori, il vento portava con sé la sabbia e il presagio.
Dentro, la luce dell’alba scaldava i loro volti: la luce della rinascita.
Un faraone spezzato e una donna che non temeva l’oscurità.
Due anime, due epoche, un solo destino.
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**Capitolo XI – La Corda e il Respiro**
Il sole stava calando oltre le dune, e l’aria profumava di sabbia calda e vento antico.
Elyos, seduta sull’erba rinata ai margini dell’oasi, tracciava un segno sulla sabbia con la punta di una freccia. Accanto a lei, Yami osservava in silenzio, la luce del tramonto riflessa nei suoi occhi viola come ametiste immerse nel fuoco.
«Tieni la corda come se fosse viva,» disse Elyos con un sorriso lieve. «Non forzarla. L’arco non obbedisce alla forza, ma al respiro.»
Yami annuì piano, ancora incerto.
Le sue mani sottili tremarono appena mentre cercava la posizione giusta.
La corda si tese, un suono lieve attraversò l’aria, e la freccia partì — curva, incerta, cadendo pochi metri avanti.
Elyos rise dolcemente. «Ogni cosa richiede tempo, anche ricordare chi sei.»
Per un istante, lo sguardo del ragazzo si abbassò.
«È questo che mi spaventa,» sussurrò. «Non sapere chi sono… e se lo scoprissi, se non mi piacesse quello che trovo?»
Lei gli posò una mano sul braccio, ferma, calda.
«Allora lo cambierai. Il passato può farti prigioniero solo se lo lasci fare.»
Il vento soffiò tra i loro capelli, sollevando la sabbia in una danza dorata.
Yami sollevò di nuovo l’arco.
Inspirò.
Elyos si mise alle sue spalle, le mani sopra le sue, guidandolo.
«Respira insieme a me,» mormorò.
La freccia partì, dritta, rapida, e trafisse il cuore del bersaglio improvvisato.
Per la prima volta, lui sorrise.
Non il sorriso enigmatico del faraone, ma quello semplice, disarmato, di un ragazzo che comincia a credere di potersi salvare.
Elyos lo guardò, e una lacrima di sollievo le bagnò le ciglia.
Sulle dune, il tramonto si spegneva lentamente, lasciando che il deserto si colorasse d’argento.
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CAPITOLO XII -**il nome nel vento**
Il fuoco crepitava piano, consumando con lentezza i rami secchi che Elyos aveva raccolto tra le rocce. Le fiamme tremolavano come piccole lingue d’oro, e il loro chiarore danzava sul volto del ragazzo, disegnandogli ombre leggere sugli zigomi affilati.
Da ore non parlavano. Elyos si limitava a osservarlo: così magro, quasi fragile, eppure in ogni gesto sembrava trattenere una forza antica, qualcosa di maestoso e dimenticato.
Il vento, improvvisamente, cambiò direzione.
Si insinuò tra le dune, fece vibrare le corde dell’arco poggiato sulla sabbia e sollevò una scia di sabbia dorata, come un respiro che avvolgeva tutto.
Yami sollevò il capo. Gli occhi viola scintillarono come ametiste alla luce del fuoco.
E poi, tra il fruscio del vento, Elyos credette di udire un suono.
Non una parola chiara — piuttosto un richiamo, un mormorio che sembrava *riconoscere* qualcosa.
Il ragazzo portò una mano al petto.
«L’hai sentito?» mormorò, la voce bassa come un soffio.
Elyos si voltò verso di lui. «Cosa?»
«Il vento…» Un’esitazione, un battito di cuore. «Mi ha chiamato.»
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**Capitolo XIII – Sotto le stelle del Faraone**
La notte era un mantello d’argento che respirava sopra il deserto.
Il vento portava sabbia e ricordi, e il cielo, cosparso di scie di luce, sembrava un mare capovolto in cui le anime antiche si riflettevano.
Yami — o forse Atem, anche se ancora non lo ricordava — stava immobile sul terrazzo del tempio in rovina.
Le braccia piegate al petto, le mani strette come in un gesto di preghiera dimenticata.
Non c’era un dio a cui rivolgersi, né un popolo in attesa della sua voce.
Eppure, nella quiete delle stelle, il suo cuore tremava come se ogni luce nel cielo fosse un frammento della sua anima dispersa.
Sotto di lui, Elyos guardava in silenzio.
Aveva imparato a riconoscere i momenti in cui non bisognava parlare:
quegli istanti in cui l’anima dell’altro si tende, fragile e immensa, come l’arco prima del tiro.
Non sapeva cosa vedesse, ma percepiva il dolore e la nobiltà di quel ragazzo spezzato.
«Le stelle…» mormorò lui, quasi senza voce. «Le ho amate un tempo. Ogni volta che le guardavo, sentivo… che mi osservavano anch’esse. Ora non le riconosco più.»
Una pausa, un respiro.
«È come se il cielo avesse dimenticato il mio nome.»
Elyos salì i gradini lentamente.
Il suo passo era leggero, ma sicuro, come quello di chi non teme la notte.
Si fermò accanto a lui, senza parlare.
Poi, semplicemente, gli posò una mano sulla spalla.
Il contatto fu lieve, eppure bastò a riportarlo indietro — un istante, un’eco: il ricordo di mani gentili, di un abbraccio perduto tra le sabbie del tempo.
«Il cielo non dimentica, Atem,» sussurrò. «È solo che a volte chiudiamo gli occhi troppo a lungo, e ci sembra che la luce non ci cerchi più.»
Lui la guardò, e nei suoi occhi color ametista scintillò per un momento un riflesso di gratitudine.
Poi tornò a guardare in alto, e il vento sollevò il mantello regale, facendolo sembrare di nuovo ciò che era stato: un faraone, un custode del respiro stesso della vita.
Un’anima che, pur ferita, non aveva smesso di cercare la propria completezza.
E quella notte, mentre le stelle cadevano come lacrime luminose, Elyos comprese che forse il destino l’aveva condotta lì non solo per salvarlo…
ma per ricordargli come si respira.
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Capitolo XIV – Il nome ritrovato
Il silenzio che seguì fu quasi sacro.
Solo il vento osava parlare, insinuandosi tra le colonne spezzate del tempio e sollevando la sabbia in piccoli vortici dorati.
Yami non si mosse subito.
Aveva lo sguardo perso nell’orizzonte, ma il cuore batteva forte, come se qualcosa di invisibile lo avesse toccato.
Poi si voltò lentamente verso Elyos.
«Cosa hai detto?» chiese, la voce quasi un sussurro.
Lei lo guardò, sorpresa. «Ho detto… Atem. È il tuo nome, no?»
Le parole restarono sospese tra loro, leggere come cenere.
Yami deglutì, confuso. «Io… non te l’ho mai detto.»
Elyos rimase immobile, gli occhi grandi, incerti.
Cercò di ricordare.
Aveva pronunciato quel nome d’impulso, senza pensarci, come se l’avesse sempre saputo.
«Non lo so, mi è venuto spontaneo,» mormorò. «È come se il vento me lo avesse sussurrato.»
Un fremito attraversò il volto del ragazzo.
Quel nome gli bruciava nel petto — familiare, antico, come un sigillo che si apre dopo millenni.
Le dita gli tremarono mentre le portava alle labbra, e chiuse gli occhi.
Per un istante, il mondo sembrò fermarsi.
Vide luce.
Un lampo bianco dietro le palpebre, un trono d’oro, una voce che gridava il suo nome tra colonne di fuoco.
Poi il buio tornò, e con esso il respiro spezzato.
Aprì gli occhi.
Elyos lo stava sorreggendo, preoccupata.
«Va tutto bene?»
Lui annuì appena. «Credo che… mi stia ricordando.»
Lei sorrise piano. «Allora il vento ha detto la verità.»
E in quel momento, mentre una nuova stella nasceva all’orizzonte, entrambi compresero — anche se non osarono dirlo — che quella notte, nel cuore del deserto, il respiro della vita aveva pronunciato il suo nome.
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Capitolo XV— Il Richiamo degli Elementi
La notte era calma, eppure l’aria portava con sé un fremito diverso.
Le stelle, distanti e silenziose, sembravano trattenere il respiro.
Elyos, seduta accanto al fuoco ormai morente, percepì quel mutamento prima ancora che i suoi sensi potessero nominarlo.
Era come se il mondo intero stesse… ascoltando.
Tra le fronde, un soffio di vento — antico, familiare — accarezzò le foglie e sussurrò un nome.
Un nome che Elyos aveva sentito una sola volta, non con le orecchie ma nel cuore:
**Atem.**
Lui si ridestò.
Lentamente, come chi emerge da un sogno troppo profondo per essere solo sonno.
Gli occhi ambrati si aprirono, e in essi si accese un riflesso dorato, la stessa luce che ardeva nei templi dimenticati del suo regno.
Il vento lo circondava, e con esso vennero la sabbia, la fiamma, l’acqua e la pietra.
I **quattro elementi** risposero al suo richiamo, come guerrieri fedeli che tornavano al fianco del loro sovrano.
Elyos lo vide alzarsi, avvolto da quel manto di energia primordiale.
Non era più soltanto l’uomo fragile che aveva curato, ma il **Re delle Origini**, l’anima che un tempo aveva parlato con gli dèi e con la terra stessa.
Il suono delle foglie divenne un canto, e la fiamma tremolante, un giuramento.
Dal buio, ombre emersero: gli stessi uomini che una volta avevano tentato di colpirlo.
Ma ora, dietro di loro, si agitava qualcosa di peggiore — una presenza antica e corrosiva, un eco del caos che aveva nome **Zorc**.
L’aria si fece pesante, eppure Atem non arretrò.
Con un gesto lento, sollevò il braccio e la luce dorata si raccolse sulla sua pelle, disegnando rune di protezione.
Il **vento** rispose, trasformandosi in lama invisibile.
La **terra** tremò sotto i piedi dei nemici.
Il **fuoco** danzò tra le sue dita come un serpente docile.
E il **mare lontano**, chiamato dal suo cuore, fece udire il proprio rombo come un applauso.
Elyos si avvicinò, stringendo al petto il piccolo **golfino di lana** che aveva intrecciato per lui.
Non come un’arma, ma come un talismano.
Lo posò sulle sue spalle nel mezzo della tempesta luminosa, e in quell’istante la furia degli elementi si placò.
Atem la guardò, e per la prima volta il suo sguardo non era solo quello di un re, ma di un uomo che ricordava cosa significasse essere amato.
Il vento si acquietò.
Le ombre, dissolte.
E quando il silenzio tornò, fu pieno di promesse:
non era più un’anima perduta.
Era tornato il Re del Respiro, colui che parla con la vita stessa.
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** Capitolo XVI – Dopo la Tempesta**
Il silenzio cadde come un manto di lino.
L’aria, che fino a poco prima urlava con voce di sabbia e fiamme, ora si muoveva lenta e gentile, come un respiro appena accennato. Il cielo era un mosaico di luce nuova, e il deserto, lambito dall’alba, sembrava trattenere il fiato per non disturbare quel momento sacro.
Atem giaceva ancora a terra, le ciglia pesanti di stanchezza, il volto segnato da una bellezza antica e vulnerabile. Elyos si inginocchiò accanto a lui, accarezzandogli i capelli ancora scossi dal vento.
Il golfino che aveva fatto a mano gli scivolò dalle dita — una macchia di viola nel chiarore dell’alba — e con un gesto lento lo posò sulle spalle del Faraone.
«È finita… puoi dormire ora, piccolo re,» sussurrò.
Ma Atem, anche nel torpore, parve udirla. Le sue labbra si mossero appena, e un filo di voce — tenue come il respiro del vento — pronunciò il suo nome.
Il cuore di Elyos ebbe un sussulto. Non sapeva se quella voce appartenesse alla veglia o al sogno, ma sentì che, in quel momento, i quattro elementi stessi — terra, aria, fuoco e acqua — si erano piegati in un silenzioso inchino.
Attorno a loro, la natura sembrava trattenere un segreto: il legame che unisce chi ha sofferto, chi ha cercato la luce, e chi l’ha trovata nell’altro.
Un battito, un respiro, un nome.
E la promessa — antica come le stelle — che nessuna oscurità è eterna.
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**Epilogo – Il respiro del nome**
Il sole era ormai sorto del tutto, e con lui anche il mondo sembrava ricordare come si fa a vivere.
Tra le dune dorate, una piuma si sollevò, danzando nell’aria. Si posò per un istante sulla mano di Atem — una carezza del cielo stesso — poi riprese il volo, dissolvendosi nella luce.
Elyos lo guardò dormire, il volto finalmente sereno, e si chiese se gli dèi concedessero mai pace a chi è stato loro strumento.
Ma mentre lo osservava, sentì qualcosa: non una voce, non un suono, ma un’eco nel cuore.
> *“Ogni respiro che mi dona il mondo, è un frammento del tuo nome.”*
Fu allora che comprese: il vento non parlava solo al Faraone.
Parlava anche a lei.
E in quell’istante Elyos capì che non era più sola.
Dietro di loro, il deserto taceva. Davanti, si stendeva la strada del giorno — un cammino nuovo, incerto, ma vivo.
E mentre il sole li avvolgeva entrambi, il piccolo re sorrise nel sonno.
Forse, anche i sogni hanno un respiro.
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**Capitolo XVII— Il Respiro della Luce
Il silenzio era sceso come un velo di sabbia dorata.
Elyos guardava il ragazzo addormentato accanto al fuoco: il suo petto si sollevava piano, i lunghi ciuffi neri e dorati ricadevano come una corona spezzata sul volto, e la luce delle fiamme faceva vibrare i riflessi viola dei suoi occhi chiusi.
Quel piccolo re… così fragile e così antico.
Ogni notte sembrava combattere guerre invisibili, e ogni notte, Elyos restava a vegliarlo come si veglia una fiamma che non deve spegnersi.
Fu allora che lui si scosse, come se un’eco lontana lo avesse chiamato.
«Non voglio… non voglio ricordare…» mormorò tra i denti, serrando i pugni.
Il vento cambiò direzione, e un mormorio si levò tra gli alberi. Elyos sentì qualcosa: non era un suono, ma un sussurro antico, come il respiro della Terra stessa.
*Atem…*
Quel nome attraversò l’aria come un soffio di verità, e parve imprimersi nel cuore del ragazzo.
Atem aprì gli occhi.
L’ombra di Zorc lo circondava come una marea di tenebra che si nutriva di ricordi.
Vide ancora il deserto ardere, la sua gente gridare, le fiamme divorare il cielo.
Sentì la lama affondare nel suo petto, e il peso della colpa lo schiacciò di nuovo, come se cinquemila anni non fossero mai passati.
Crollò in ginocchio, ansimando.
«Io… ho sacrificato tutto… eppure lui è ancora lì!»
Il suo grido si spense nel vento, e infine, dopo un lungo silenzio, arrivarono le lacrime.
Lacrime vere, dense come sabbia e sale, che Elyos raccolse con una mano tremante.
Non disse nulla. Lo abbracciò soltanto.
Fu un gesto semplice, ma bastò. Atem tremò, poi lasciò andare tutto — l’orgoglio, il dolore, la paura.
Si abbandonò a quel calore umano come un bambino che ritrova il grembo del mondo.
«Shh… va tutto bene, piccolo re…» sussurrò Elyos, accarezzandogli i capelli.
E in quel momento, il vento tornò a parlare.
Ma non era più un lamento: era un canto.
Il cielo sopra di loro si aprì come una ferita di luce, e nel suo bagliore Atem vide — non Zorc, non il demone, ma se stesso.
Non più lo spirito imprigionato, non più il faraone colpevole, ma l’anima che aveva scelto di sacrificarsi per amore.
La mano di Elyos, ancora stretta alla sua, sembrò trasmettergli forza.
«Zorc!» gridò Atem, rialzandosi. «Non sono più il tuo sigillo. Io sono il mio nome!»
La terra tremò, il cielo si oscurò, e dalle mani del ragazzo nacque un arco di luce, forgiato dal vento e dal ricordo.
Elyos lo guardò senza paura.
Non era magia, era fede.
Era il respiro di un’anima che finalmente ricordava di essere viva.
Atem tese la corda, e la freccia bianca prese forma: pura, tremante, come una stella sul punto di nascere.
Quando la scoccò, non urlò, non tremò.
La luce lo avvolse, e la voce di Elyos lo raggiunse ancora una volta:
«Respira, Atem. Sei libero.»
Zorc urlò, la sua ombra si dissolse nel vento, e la notte tornò a essere cielo.
Quando il silenzio tornò, Elyos lo trovò inginocchiato, stanco ma sereno, gli occhi viola colmi di un riflesso che sembrava aurora.
Lei gli sfiorò il viso.
«Ben tornato, piccolo re.»
E lui, con un sorriso fragile ma vero, rispose:
«No… grazie a te, non sono più un re. Sono solo Atem.»
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Capitolo XVIII – Il confine dell’alba
L’alba saliva piano, spazzando via il nero della notte come un sipario di velluto.
Il deserto taceva. Solo il vento parlava, portando con sé il profumo lontano del loto.
Atem era seduto accanto a Elyos. Le mani, ancora fasciate, riposavano sulle ginocchia.
Il suo sguardo seguiva il chiarore che si apriva all’orizzonte.
Per un lungo momento, nessuno dei due parlò.
Poi, con voce bassa, quasi timorosa, disse:
— *Non pensavo che la luce potesse scaldare così. Avevo dimenticato cosa significasse non aver paura del giorno.*
Elyos sorrise, dolce, lasciando che le parole si posassero tra loro come sabbia.
— *La luce non chiede niente, Atem. Ti accoglie e basta.*
Lui abbassò gli occhi.
Un’ombra gli attraversò il viso, ma non era più la paura. Era memoria.
— Da bambino credevo che il dovere fosse tutto. Mio padre, i sacerdoti, la guerra… tutto mi diceva che un re non deve sentire. Solo comandare. Ma io… io sentivo tutto. Il dolore della gente. Il pianto di chi moriva per me. E quando ho scoperto cosa aveva fatto mio zio…-
La voce si incrinò. Elyos lo lasciò parlare.
— Credevo che la mia anima fosse sporca come il sangue che scorreva nelle mie vene.
Ho passato secoli a cercare perdono… ma forse non è quello che cercavo.
— E cosa cerchi, allora? — chiese lei, con la calma di chi già conosce la risposta.
Atem la guardò. Nei suoi occhi violetti, la luce del mattino sembrava danzare.
— Pace. Non come fuga, ma come ritorno. Eppure…-
— Eppure ora hai scoperto cosa vuol dire avere qualcuno accanto. -
— Sì. — Sorrise, appena. — Tu mi hai insegnato che esiste un altro modo di essere forti. -
Il vento li avvolse entrambi, tiepido.
Elyos allungò una mano e sfiorò la sua, come farebbe una madre.
Lui non si ritrasse.
— Non so se appartengo ancora a questo mondo, — sussurrò Atem. — Ma non voglio andarmene come ombra. Voglio ricordare di essere stato vivo.
Elyos lo guardò con dolce fermezza.
— Allora non temere, piccolo re.
La vita non finisce dove finisce il corpo.
E l’amore… l’amore non obbedisce al tempo.
Lui chiuse gli occhi.
Una lacrima scivolò, ma era limpida, senza dolore.
— Quando il vento tornerà, saprò che sei lì? -
— Sempre. — rispose lei, con un sorriso che sapeva di eternità. — Nel respiro della terra, nei raggi del sole, in ogni cosa che ama senza chiedere nulla.-
Atem inspirò profondamente, e per la prima volta da secoli, respirò non per dovere, ma per scelta.
— No… grazie a te non sono più un re. — disse piano, e un’ombra di pace attraversò il suo volto. — Sono solo Atem. -
E la sabbia, come una preghiera, si sollevò intorno a loro, portando via il peso della corona.
Epilogo — Il profumo dei gigli
Il vento si era fatto quieto.
La notte, adesso, respirava piano, come se il mondo intero avesse smesso di parlare per lasciare spazio a loro due.
Atem era una figura di luce — la sua forma ancora riconoscibile, ma i contorni vibravano come una fiamma che teme di spegnersi.
Elyos non disse nulla.
Gli occhi le si riempirono di lacrime che non erano tristi: erano lacrime che sapevano di compimento.
«È il momento, vero?» mormorò lei, con un filo di voce.
Lui annuì piano.
Le sue iridi violacee brillarono come stelle che si spengono solo per rinascere altrove.
Fece un passo avanti, esitante, come un bambino che teme di svegliarsi da un sogno.
Elyos aprì le braccia, e lui si lasciò andare.
Fu un abbraccio lungo, profondo, reale.
Il calore dei loro cuori si fuse in un’unica vibrazione, e per un istante parve che il tempo si fosse fermato per assistere a quel miracolo.
«Grazie… mamma…» sussurrò Atem contro la sua spalla.
La voce era quella di un ragazzo e di un re, di un’anima antica che finalmente aveva trovato casa. «Tornerò… aspettami.»
Un raggio di luce li avvolse entrambi, e Elyos sentì il suo corpo diventare leggero, come se un frammento di lei si staccasse per seguirlo, solo per un tratto.
Quando riaprì gli occhi, Atem non c’era più.
Solo il profumo di gigli riempiva la stanza — puro, intenso, eterno.
E in mezzo al silenzio, sul tavolo accanto al suo arco, brillava un piccolo anello d’oro, inciso con un simbolo che lei non aveva mai visto prima: il segno dell’unione tra due anime che neppure la morte avrebbe potuto separare.
Elyos sorrise tra le lacrime.
«Va’ piccolo re… ma non farti attendere troppo.»
Fuori, il vento riprese a soffiare. E per un istante, giurò di aver sentito una voce nel respiro della notte:
“Lo prometto.”



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