IL RITORNO DEL RE
Il
pomeriggio stava morendo piano, e l’aria sulla terrazza sapeva di pioggia
vicina. Elyos stava litigando con un vaso di gerani che, per l’ennesima volta,
si era ribaltato come un ubriaco.
«Giuro che
vi rinvaso tutti e vi trasformo in origano se continuate così!» sbuffò, mentre
cercava di raddrizzarlo.
Fu allora
che sentì quella voce.
Una voce che
non si dimentica, anche se il mondo intero cerca di fartela scordare.
«Il tuo
pollice verde sembra più un pollice... in sciopero.»
Elyos si
immobilizzò. Il cuore le fece un salto, come se avesse inciampato tra le
costole. Si voltò di scatto, e lo vide lì, appoggiato al parapetto come se
fosse la cosa più naturale del mondo:
Atem, col
vento che gli muoveva i capelli e un mezzo sorriso sfrontato, proprio quello
che le aveva rubato il respiro tre anni prima.
«Sei tu...»
mormorò, ancora senza crederci.
Lui inclinò
la testa. «Chi altri rimproverebbe la mia custode per maltrattamento a fiori?»
Elyos rise —
una risata che non ricordava più di avere.
«Sai che mi
hai fatto perdere tre anni di sonno?»
«Allora ho
fatto un ottimo lavoro: dormire troppo fa male.»
Lei scosse
la testa, avvicinandosi piano, come si fa con i sogni che si teme di rompere.
«Avevi
promesso che saresti tornato.»
Lui la guardò,
serio ma con gli occhi che brillavano.
«Lo so. E io
mantengo sempre le promesse. Anche se ci metto un po’… sai com’è, il traffico
tra le dimensioni è tremendo ultimamente.»
Elyos
scoppiò a ridere. Per la prima volta dopo tanto tempo, rideva davvero.
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Fuori, la
pioggia aveva cominciato a tamburellare sui vetri, leggera come dita curiose
che bussavano alla finestra.
Elyos, con
un plaid sulle spalle, sedeva accanto al letto dove Atem, ben rintanato sotto
le coperte, agitava la testa e parlava come un torrente.
«E poi,
Elyos, dovresti vedere i colori del cielo al tramonto nel mondo dell’aldilà!
Non è rosso… è più come oro che si scioglie!»
«Davvero?»
sorrise lei, aggiustandogli la coperta. «E dimmi, ti sei almeno ricordato di
mangiare in tutti questi millenni o vivi solo di luce solare e chiacchiere?»
Lui rise,
quella risata calda e piena che scacciava via la malinconia.
«Forse un
po’ di entrambe… ma la luce del mondo dei vivi ha un sapore diverso, più
dolce.»
Un tuono
rimbombò lontano, e per un attimo Atem parve stringersi nelle spalle, come un
bambino colto di sorpresa.
Elyos gli
posò una mano fra i capelli:
«Non temere,
non è un incantesimo che ti reclama indietro. È solo un temporale… capita anche
ai re, lo sai?»
Lui la
guardò, gli occhi viola che brillavano come piccole lune. «Lo so. Ma… mi piace.
Mi ricorda che il cielo non dorme mai.»
Elyos rise
piano. «Allora il cielo e tu avete molto in comune.»
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Un tuono
squarciò la notte, così potente che i vetri tremarono.
Elyos
trattenne a stento una risata: il faraone del millennio, eroe di duelli e
battaglie, aveva appena rovesciato metà della tazza di tè sulle coperte.
— “Non
ridere…” — borbottò lui, mentre cercava invano di tamponare con un fazzoletto
la macchia di camomilla.
— “Oh,
certo, maestà… il cielo osa ribellarsi, e tu impugni il fazzoletto come fosse
Exodia!”
Atem la
fissò con un cipiglio offeso, poi distolse lo sguardo, imbronciato.
Un altro
tuono esplose, e lui si strinse d’istinto nella coperta.
Elyos
sospirò con dolcezza, sedendosi sul bordo del letto.
— “E dire
che hai affrontato spiriti antichi e mostri d’ombra, eppure basta un temporale
per farti tremare le mani…”
Il ragazzo
tacque per un istante, poi le rivolse un sorriso appena accennato.
— “Gli
spiriti si affrontano con il cuore… ma il cielo, Elyos, quello non lo puoi
sfidare. Ti ricorda quanto sei piccolo.”
Lei rimase
in silenzio. Quella risposta era così semplice, eppure così matura.
Allora gli
passò una mano tra i capelli e mormorò:
— “Piccolo
sì, ma con un cuore grande come il deserto.”
Lui rise
piano, stavolta sincero, e appoggiò la fronte al braccio di lei, come faceva da
bambino.
Fuori, la
pioggia cominciava a cadere più lenta, come se anche il cielo avesse deciso di
ascoltarli.
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capitolo 2
**“L’odore della vaniglia”**
Il primo
raggio di sole filtrava attraverso le tende leggere, danzando sul viso di Atem.
L’odore dolce di vaniglia e burro appena sciolto lo raggiunse prima ancora che
aprisse gli occhi.
Per un
istante, rimase immobile, quasi sospeso tra sogno e realtà. Poi il suo stomaco,
più sveglio di lui, decise che era tempo di scoprire da dove provenisse quel
profumo invitante.
Scostò piano
le lenzuola, scivolò giù dal letto — ancora un po’ impacciato con i vestiti
moderni che Elyos gli aveva lasciato sul comodino — e si affacciò sulla soglia
della cucina.
Elyos, con i
capelli raccolti alla meglio, stava sistemando due tazze fumanti e un piatto di
cornetti dorati.
«Buongiorno,
mio piccolo re.» disse, senza voltarsi.
Atem si
fermò un attimo. Quel titolo, pronunciato con tenerezza e non con deferenza,
gli mise addosso un sorriso che non seppe trattenere.
«Buongiorno… Elyos.» rispose con la voce ancora impastata di sonno. Si avvicinò al tavolo, guardando curioso il cappuccino: la schiuma bianca, le spirali di cacao, il cucchiaino d’argento.
«È… una
pozione?» chiese serio, accennando un gesto come se volesse evocare un
incantesimo.
Elyos
scoppiò a ridere, quasi rovesciando la propria tazza.
«In un certo
senso sì: fa sparire il sonno e fa comparire il buonumore.»
Atem la
fissò per qualche secondo, poi prese il cucchiaino e lo immerse nella schiuma.
Soffiò piano, imitando il modo in cui lei aveva fatto poco prima — ma il
risultato fu una piccola nuvola di latte schizzato che gli si appiccicò sulla
punta del naso.
«Oh!»
esclamò, sorpreso, toccandosi il viso.
Elyos gli
porse un tovagliolo, trattenendo una risata.
«Benvenuto
nel mondo moderno, Atem: qui anche le bevande sanno difendersi.»
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**CAPITOLO 3
“Le carte del mattino”**
Il profumo dolce della vaniglia aleggiava ancora nella stanza quando Elyos ripose le tazze nel lavello.
Il sole filtrava tiepido dalla finestra e accarezzava il mazzo di
tarocchi appoggiato sul tavolo, facendone brillare i bordi dorati.
Atem, seduto
con le mani intrecciate davanti a sé, non riusciva a staccare lo sguardo da
quelle carte. Non erano carte da duello, eppure… qualcosa lo chiamava.
«Posso?»,
chiese piano, quasi temendo che le carte potessero offendersi.
Elyos
sorrise. «Certo che puoi, piccolo re. Ma sappi che queste non si usano per
vincere battaglie. Servono per ascoltare, per guardare dentro, non fuori.»
Atem tese la
mano, esitante. Non appena le dita sfiorarono il dorso del mazzo, un brivido
sottile gli attraversò il palmo. Non di paura — era come un saluto. Le carte
tremarono leggermente, come riconoscendolo.
«Hanno…
un’anima», mormorò, stupito.
«Certo che
ce l’hanno. Ogni carta ha vissuto qualcosa con chi l’ha toccata. Sono come
piccoli ricordi che si intrecciano.»
Atem le
sollevò lentamente, osservando la prima: *Il Matto*.
Un giovane
in cammino, con il viso rivolto al cielo e il passo sospeso sull’orlo del
precipizio.
Sorrise,
quasi intenerito. «Forse… mi somiglia.»
Elyos rise
piano. «Tutti abbiamo iniziato il viaggio da lì, Atem. Solo che tu lo hai fatto
due volte.»
Atem rimase
qualche secondo in silenzio, con le dita ancora sospese sul mazzo.
Poi,
d’istinto, iniziò a mescolare le carte con gesti naturali, precisi. Elyos lo
osservava — ogni movimento sembrava antico, quasi sacro, come se quelle mani
ricordassero qualcosa che la mente aveva dimenticato.
«Non male
per essere la tua prima volta», scherzò lei, sorseggiando il caffè ormai
tiepido.
«In realtà…
non credo sia la prima,» rispose lui, abbassando lo sguardo sulle carte. «È
come se… loro mi riconoscessero. Come vecchi amici.»
Elyos
sorrise. «Allora chiedi loro qualcosa. Ma non una domanda di battaglia — una
del cuore.»
Atem chiuse
gli occhi. Per un istante, la stanza parve riempirsi di un lieve fruscio, come
il vento nel deserto. Poi pescò tre carte e le dispose sul tavolo:
**Il
Matto**, **Il Sole**, **La Temperanza**.
La donna si
sporse a guardarle e parlò a voce bassa, quasi fosse una preghiera:
«Il Matto
sei tu, Atem: l’anima che cammina leggera, che si affida alla vita. Il Sole è
la tua luce — quella che regali a chi ti incontra. E la Temperanza…»
Fece una
pausa, incontrando i suoi occhi viola, ora attenti e un po’ emozionati.
«È la pace
che hai finalmente trovato, dopo tanto cammino.»
Atem sorrise
piano. «Allora è vero. Le carte sanno ascoltare.»
«Le carte
sì,» rispose Elyos, «ma solo se chi le tocca ha il cuore puro.»
Lui rise,
quasi imbarazzato, poi chinò il capo come un bambino sorpreso a ricevere un
complimento troppo grande.
«Allora…
posso dire che le carte mi hanno parlato di te.»
Elyos gli
passò il mazzo di tarocchi, il legno della scatola profumava di tempo e incenso.
«Concentrati
sul presente,» gli disse dolcemente, «non serve altro.»
Atem posò la
punta delle dita sul dorso delle carte.
All’inizio fu solo un tocco curioso — ma poi un fremito lo attraversò.
Un battito,
come un eco lontano… un respiro che non apparteneva a quella stanza.
Le carte
vibrarono appena, un soffio d’oro sfuggì dai bordi.
Le immagini
scorsero come specchi d’acqua: una corona spezzata, il deserto che brucia, il
sangue di chi non può più parlare.
Lui
trattenne il respiro.
«No… basta…»
sussurrò.
Non voleva vederlo, non adesso. Non ancora.
Elyos si
avvicinò piano, posando una mano sulla sua.
«Ehi… guarda
me. Quelle immagini non hanno più potere su di te. Il passato è solo ombra se
lo guardi da solo.
Ma se lo
condividi… diventa memoria, e la memoria può guarire.»
Il re
abbassò lo sguardo.
Le carte si spensero, tornando a essere solo
carta e inchiostro.
Nel suo
petto, però, batteva una cosa che non sentiva da tanto:
**pace.**
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Atem restò immobile per un lungo momento.
Le sue dita
tremavano appena, ma non per la magia: era il cuore che batteva troppo forte, come se
stesse cercando di scappare da un ricordo.
Poi, piano,
inspirò.
L’aria
profumava ancora di vaniglia e di pane caldo.
Non di
sabbia, non di cenere.
Di **casa**.
«Mi
dispiace,» mormorò. «Non volevo…»
Elyos gli
posò delicatamente un dito sulle sue giovani labbra sottili.
«Non devi
scusarti, piccolo re. I ricordi non mordono se li accarezzi piano. E adesso non
sei più solo.»
Per la prima
volta, Atem non tentò di nascondere gli occhi lucidi.
Li lasciò essere, come il cielo dopo un temporale.
E in quello
sguardo — mescolato di dolore e gratitudine — c’era una promessa silenziosa:
questa
volta, nessuna ombra avrebbe potuto mai più togliergli la luce che aveva trovato.
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Atem abbassò lentamente lo sguardo sulle carte sparpagliate sul tavolo.
La sua mano,
ancora ferma a mezz’aria, vibrò di un’energia antica — ma non oscura: era solo la
memoria che tentava di riemergere, come un’onda che ancora non vuole morire.
Poi lui
sorride.
Un sorriso
vero, quasi timido, che rompe la tensione come il primo raggio di sole dopo la
pioggia.
«Sai una
cosa?» disse, raccogliendo le carte con gesti attenti. «Se continuano a parlarmi
del passato, le rimando nel mazzo. Che imparino le buone maniere.»
Elyos
scoppiò a ridere, con quella risata piena e calda che riempie la stanza come
una coperta.
«Oh, piccolo
re, se il destino non ti ascolta, tu lo raddrizzi come una carta storta, eh?»
Lui si
strinse nelle spalle, fiero e disinvolto.
«Beh,
diciamo che… una regola l’ho imparata: non serve cambiare il passato, basta non
lasciargli vincere la mano.»
La risata di
Elyos si spense dolcemente.
Si avvicinò,
gli passò una mano nei capelli ribelli, e lo guardò con l’affetto di chi
ritrova un figlio dopo secoli di silenzio.
«Forse è per
questo che sei tornato da me,» sussurrò. «Perché certe battaglie, Atem, si
vincono solo quando qualcuno ti tiene stretto mentre combatti.»
Atem la
guardò, gli occhi un po’ lucidi ma pieni di luce nuova.
«Allora…
grazie per avermi aspettato, mamma.»
Un silenzio
lieve scese nella cucina.
Solo il
ticchettio della pioggia che scivolava via dai vetri, e il profumo dei cornetti
che si faceva più dolce, come se anche il mondo, per un attimo, avesse sorriso.
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CAPITOLO 4
** avventure domestiche**
La colazione era ormai finita.
Sul tavolo
restavano solo un po’ di briciole, il profumo persistente della vaniglia e un
cappuccino mezzo freddo.
Elyos si
chinò a raccogliere il piatto vuoto, ma non fece in tempo.
«Lascia fare
a me! In un palazzo reale non mi facevano mai toccare nulla. È ora che impari,
giusto?»
Elyos
sorride, leggermente preoccupata.
«Eh, sì… ma
magari cominciamo con qualcosa di *meno fragile*, piccolo re.»
Lui la
ignorò del tutto, portando la tazza verso il lavello con l’aria di chi sta
compiendo un’impresa eroica.
Poi accadde
l’inevitabile: toccò il rubinetto.
Un getto
d’acqua potentissimo gli schizzò addosso e lo lasciò con i capelli (già
ribelli) arruffati come una tempesta nel deserto.
«Gli dèi
dell’acqua… sono più forti di quanto ricordassi!» esclamò sputacchiando tra le
gocce.
Elyos
scoppiò a ridere così forte che quasi le cadde lo strofinaccio dalle mani.
«Atem! Ma
non si combatte contro il rubinetto!»
Lui,
completamente bagnato, la guardò con una serietà disarmante.
«Tu non hai
mai visto un Nilo in piena, mamma. Fidati: questa è la sua reincarnazione
domestica!»
Rise anche
lui, stavolta, con una risata vera, limpida, che sembrò cancellare ogni ombra
antica.
Poi si
guardò intorno, curioso come sempre: toccò i libri, studiò i quadri, si
avvicinò alla finestra, osservò a lungo le auto passare.
«Tutto si
muove più veloce, qui,» mormorò. «Anche le persone. Non c’è bisogno di carri,
né di cavalli… ma corrono comunque.»
Elyos gli si
avvicinò piano, posandogli una mano sulla spalla.
«È vero, ma
certe cose non cambiano. Come il tempo per una colazione insieme. O per ridere,
anche solo di un rubinetto impazzito.»
Atem le
sorrise, un po’ impacciato ma felice.
«Allora...
oggi insegna a un re come si sopravvive in questo secolo. Prometto di non
sfidare più gli elettrodomestici.»
«Va bene, ma
giurami che non tocchi la lavatrice.»
«La
lava-trice?»
«…lascia
stare.»
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**Capitolo 5 – La notte delle lanterne**
Il vento
d’ottobre portava con sé l’odore di foglie bagnate e zucchero bruciato.
Elyos chiuse
bene la sciarpa intorno al collo e diede un’occhiata al ragazzo che le
camminava accanto, con passo attento e sguardo incantato.
le vetrine
illuminate di arancio, i bambini con mantelli e cappelli da strega, i lampioni
addobbati con zucche sorridenti.
Ogni cosa
sembrava nuova, strana e un po’ magica.
«È un rito?»
chiese, scrutando una lunga fila di fantasmini di carta appesi sopra la strada.
Elyos rise
piano. «Più o meno. È la notte in cui ci travestiamo da ciò che ci spaventa…
per ricordarci che non tutto il buio fa male.»
Lui annuì
lentamente, come se volesse imprimere quella frase nella memoria.
Poi si fermò
davanti a una bancarella.
C’erano
dolci di ogni tipo — mele caramellate, biscotti a forma di pipistrello,
cioccolata calda servita in tazze di plastica con disegni di scheletri
danzanti.
Atem allungò
una mano, esitante.
«Sembrano…
offerte per gli spiriti.»
«In un certo
senso lo sono,» rispose Elyos, comprando due mele rosse lucide. «Ma stanotte
gli spiriti siamo noi.»
Lui la
guardò con aria perplessa, poi diede un morso al caramello.
Il viso gli
si illuminò.
«È dolce!
Come… come la luce del mattino!»
Elyos
scoppiò a ridere.
«È zucchero,
piccolo re. Attento, crea più dipendenza della magia.»
Camminarono
ancora, tra risate e musica.
Una banda
suonava in fondo alla via, e il cielo si tingeva di viola e oro.
Atem si
fermò spesso — davanti a una vetrina di maschere, davanti a un gruppo di
ragazzi che correvano gridando “Dolcetto o scherzetto!”, davanti a un cane
travestito da drago.
Accanto a
una piccola lanterna di carta, vide il riflesso di se stesso nel vetro di una
finestra.
Per un
attimo, il suo bellissimo sorriso si spense.
Le luci
tremolanti disegnavano ombre dorate sul suo viso, e negli occhi violacei si
rifletteva una tristezza sottile.
«Tutti
portano una maschera,» mormorò piano.
«Io l’ho
portata per troppo tempo.»
Elyos si
avvicinò, posandogli una mano sulla spalla.
«Stanotte
puoi toglierla, se vuoi. Nessuno ti giudicherà.»
Lui la
guardò, e per un istante parve più giovane, fragile, umano.
Poi inspirò
lentamente.
«Allora…
voglio essere solo Atem. Niente re, niente passato. Solo… me.»
«Perfetto,»
disse lei con un sorriso. «Allora cominciamo da una maschera nuova: quella
della libertà.»
Gli porse un
piccolo cerchietto con orecchie da gatto.
Atem la
fissò, perplesso.
«È… un
simbolo?»
«Più o
meno,» rise Elyos. «Un simbolo di leggerezza. E di ironia.»
Lui esitò,
poi lo indossò con una dignità regale.
«Allora,
Elyos,» disse con un sorriso fiero, «guida il tuo re-gatto verso la conquista
del mondo moderno.»
Elyos rise
fino alle lacrime, prendendolo sotto braccio.
«Affare
fatto, piccolo re. Ma prima ti insegno la cosa più importante.»
Il vento si
alzò, e le foglie rosse e dorate cominciarono a cadere intorno a loro.
Elyos prese
la sua mano, e insieme si misero a girare, ridendo come due bambini.
La gente li
guardava, qualcuno sorrideva, qualcuno pensava fossero solo due pazzi felici.
Ma per Atem,
quella notte di ottobre non era solo una festa:
era il primo
vero respiro del mondo.
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La strada
ormai si era svuotata.
Le lanterne
di carta ondeggiavano piano al soffio del vento, e la luce arancione delle
vetrine si rifletteva sull’asfalto bagnato.
Atem
camminava accanto a Elyos, con la coda del suo cerchietto da gatto che
oscillava leggera dietro di lui.
Un’ombra,
sottile ma reale, si era insinuata tra i riflessi viola delle sue pupille.
Elyos se ne
accorse subito.
Conosceva
quei silenzi: erano quelli che arrivavano quando il passato bussava alla porta
della sua mente.
Lui non
rispose subito. Guardava un gruppo di bambini correre con le lanterne accese, e
il loro bagliore gli si rifletteva sul viso angelico come una danza di piccole fiamme.
«Le carte…»
disse infine, piano.
«Quando le
ho toccate stamattina… non era solo memoria. C’era qualcuno. Una voce che
rideva.
È tornata,
Elyos. Quella risata.»
Il suo corpo
si irrigidì, e la mano si chiuse a pugno, come se volesse trattenere il
tremito.
Elyos si
avvicinò senza una parola. Gli prese la mano, la aprì con calma, intrecciando
le dita alle sue.
«Ascoltami,
piccolo re. Nessuno può tornare a imprigionarti. Non più. Quella voce non ha
più il tuo nome.»
«E se avesse
ancora il potere di chiamarmi?»
I suoi occhi, scuri e stanchi, incontrarono quelli di lei, caldi come la fiamma di una lanterna.
La pioggia
aveva smesso di cadere, ma l’aria sapeva ancora di terra bagnata e zucchero.
Elyos si tolse la sciarpa e la avvolse intorno alle spalle del ragazzo.
«È il mio
mantello magico,» scherzò con un sorriso tenero. «Tiene lontane le ombre e le
cattive voci.»
«Funziona
davvero?»
«Funziona
perché io ci credo. E adesso ci crederai anche tu.»
Il mondo
intorno si faceva silenzioso, e per un istante Atem chiuse gli occhi, lasciando
che il battito del cuore della sua guida dal cuore caldo si sovrapponesse al suo.
La voce
dentro di lui tentò ancora una volta di emergere — un sussurro, un eco lontano
— ma trovò ad accoglierla non più il vuoto, bensì il calore.
Un respiro.
Un abbraccio.
E, piano
piano, la risata si arrese e si spense.
«Sai,»
mormorò lui, «forse il buio non scompare mai del tutto… ma se qualcuno lo
abbraccia, smette di far paura.»
«Esatto,
piccolo re. Non dobbiamo distruggere il buio. Dobbiamo solo insegnargli a
respirare con noi.»
Sopra di
loro, una lanterna si staccò dal filo e prese il volo, lenta, fluttuante, verso
il cielo.
Atem la
seguì con lo sguardo, finché non divenne un punto di luce lontano.
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### **Capitolo
7 – La stella **
Il mare era
lo stesso, ma diverso.
Le onde
sembravano più lente, più quiete, come se anche loro ricordassero quella
mattina lontana.
Atem
camminava accanto a Elyos, le mani affondate nelle tasche del giubbotto, il
vento che gli scompigliava i capelli biondi che incorniciavano il volto.
La sua voce
era bassa, quasi timida.
«E adesso?»
Poi
aggiunse, piano: «Grazie a te.»
Lei non
rispose subito.
Aprì la
piccola scatolina che teneva in mano.
Dentro, su
un letto di velluto chiaro, brillava un piccolo ciondolo a forma di stella,
tagliato nel cristallo più limpido che fosse riuscita a trovare.
«È per te,»
disse, porgendoglielo.
«Per
ricordarti che anche la luce più pura nasce da una ferita.»
Lui la
guardò, confuso.
«Perché una
stella?»
«Perché non
si può toccare, ma illumina comunque. E perché anche tu, Atem, sei così:
fragile, lontano… ma capace di rischiarare chi ti è accanto.»
Le sue dita
sfiorarono il cristallo.
Per un
attimo la superficie rifletté il cielo e il mare insieme, come se contenesse
entrambi.
Poi la
leggera catenella d’argento scivolò tra le mani di Elyos, che la fece passare
dietro la sua nuca.
La goccia
d’ambra sulla fronte catturò un raggio di sole, e il cristallo, appena più in
basso, rispose con una scintilla.
Due luci,
diverse ma armoniche, come due respiri che si incontrano.
Atem abbassò
la testa, sorridendo appena.
«Non pensavo
che qualcuno potesse ricordare ancora quel giorno.»
«Io non lo
ricordo,» rispose lei. «Lo porto dentro, come si porta un battito.»
Per un
attimo il vento cessò.
Elyos gli
posò una mano sul viso, sfiorando la pelle con la stessa delicatezza con cui si
accarezza un sogno.
«Buon
anniversario, piccolo re.»
Lui la
fissò, e nei suoi occhi viola si accese una luce nuova — non più quella del
passato, ma di chi ha finalmente imparato a esistere nel presente.
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**Capitolo 8 – Le luci della sera**
La città
respirava in un modo tutto suo: a scatti, tra un clacson e un riflesso di fari.
Dal
terrazzo, Atem la guardava muoversi come un enorme organismo fatto di vetro e
acciaio.
Ogni
finestra accesa era un piccolo cuore pulsante, un segreto di calore nascosto
dietro le tende.
Lui si
appoggiò alla ringhiera. Il metallo era freddo sotto le dita, ma l’aria portava
un odore buono di pane e pioggia.
Lì sotto, le
macchine correvano e gridavano, piccole luci impazienti che si urtavano come
stormi di uccelli ciechi.
Sembrava
un’umanità intera che non ricordava più come respirare piano.
Atem sorrise
appena.
Era strano
sentirsi… fermo.
Per tanto
tempo la quiete era stata una prigione; ora era un dono.
Nel vetro
della finestra di fronte vide il riflesso di una famiglia: un padre che
affettava il pane, una donna che rideva, una bambina che correva con un gatto
in braccio.
Un mondo
minuscolo, racchiuso in pochi metri di luce gialla.
Un nodo gli
salì in gola.
Non era
invidia, né malinconia — era stupore.
Lui, che
aveva vissuto in palazzi di pietra e sabbia, tra sacerdoti e incantesimi, non
aveva mai visto **il miracolo del quotidiano**.
L’amore non
come rito o sacrificio, ma come gesto semplice: una tavola apparecchiata, una
voce che chiama per la cena, un sorriso stanco ma sincero.
Dietro di
lui, Elyos si muoveva in cucina.
L’odore di
zuppa di lenticchie e spezie riempiva l’aria, e lui si scoprì a seguirlo come
si segue un canto.
«Sei
pronto?» chiese lei, apparendo sulla soglia con il mestolo in mano.
Atem si voltò.
Il cristallo a forma di stella rifletteva le luci della città come un
piccolo firmamento sul suo petto.
«Sì,»
rispose piano. «Solo… stavo guardando le stelle della terra.»
Elyos
sorrise, avvicinandosi. «Ti piace la vista?»
«Sì. È viva.
Anche se fa rumore.»
Si voltò
verso di lei. «È questo, l’amore? Restare accesi anche nel frastuono?»
Lei posò una
mano sul suo braccio, dolcemente.
«Sì, piccolo
re. È proprio questo.»
Atem restò
in silenzio ancora un attimo, poi prese un respiro profondo — e per la prima
volta da molto tempo, gli sembrò di respirare insieme al mondo.
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**Capitolo 9 – Il sapore delle cose nuove**
La zuppa fumava
nelle scodelle e profumava di curry e rosmarino.
Atem la
fissava con aria sospettosa, il cucchiaio sospeso a metà strada.
«Sono…
lenticchie?» chiese, pronunciando la parola con cura, come se fosse un
incantesimo sconosciuto.
Elyos rise.
«Esatto. Piccole, ma portentose. Portano fortuna, soprattutto a Capodanno.»
«Capodanno?»
«È il primo
giorno del nuovo anno. Si mangiano per augurarsi abbondanza e buona sorte.»
Lui inclinò
la testa, serio. «E funzionano?»
Atem prese
un cucchiaio di zuppa, la assaggiò con cautela, poi fece una smorfia sorpresa.
«Ha un
sapore… rotondo. Come se il sole fosse stato cotto piano, dentro l’acqua.»
Elyos
scoppiò a ridere. «Mi piace questa descrizione! È ufficiale: sei il primo poeta
delle lenticchie della storia.»
Lui la
guardò, fingendo una solennità regale. «Allora pretendo una corona di pane.»
«Pane ce n’è
in abbondanza, ma la corona la lasciamo per le feste,» replicò lei,
riempiendogli di nuovo la ciotola.
Mentre
mangiavano, la città si rifletteva nei vetri della finestra come un presepe
moderno.
Le luci, il
vento, i suoni lontani: tutto sembrava un po’ più caldo, un po’ più vivo.
Elyos si
chinò leggermente verso di lui.
«Sai, se ti
va, potresti restare qui per le Feste. Ci sono tante cose da scoprire:
l’albero, i regali, le luci per strada…»
Atem alzò lo
sguardo, sorpreso. «Posso?»
«Allora
resterò. Voglio capire cosa significa “sentirsi a casa”.»
Fu in quel
momento che qualcosa attirò la sua attenzione.
Sul camino,
accanto a una candela spenta, c’era un giornale piegato.
Il vento
della finestra socchiusa fece frusciare le pagine, scoprendo una fotografia in
bianco e nero.
Atem si
alzò, incuriosito.
Le lettere
stampate non gli erano ancora del tutto familiari, ma la figura nell’immagine
lo fece gelare.
Un oggetto
antico, inciso di simboli, brillava sullo sfondo di una teca da museo.
Elyos lo
vide irrigidirsi.
«Atem? Che
c’è?»
Lui non
rispose subito.
Le dita
sfiorarono la foto come se potessero sentire la superficie del metallo.
«Quello… non
può essere,» mormorò.
Un sussurro,
appena udibile, ma carico di qualcosa che assomigliava alla paura.
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**Capitolo 11 – Quando il trono tace**
La casa
dormiva.
Solo il
respiro lento del frigorifero e il ticchettio dell’orologio rompevano il
silenzio.
Fu allora
che un suono diverso si fece strada, lieve ma distinto: l’acqua che scorreva.
Elyos si girò nel letto, confusa.
Per un attimo pensò di averlo sognato, poi il fruscio
tornò, insieme a un’ombra di luce che filtrava dal corridoio.
Si alzò
piano, ancora assonnata, e si avvolse nello scialle lasciato sulla sedia.
Quando
raggiunse la cucina, lo trovò lì: Atem, seduto al tavolo, la mano intorno a un
bicchiere mezzo vuoto, lo sguardo perso nel nulla.
La lampada
accesa sopra di lui disegnava un cerchio dorato che faceva sembrare tutto il
resto più buio.
«Non riesci
a dormire?» chiese Elyos, la voce bassa per non spaventarlo.
«No. Il
sonno mi sfiora, ma non resta. Come se non mi riconoscesse.»
Elyos si
avvicinò, sedendosi di fronte a lui. «Succede, a volte. Quando la mente è piena
di cose che pesano.»
«Non riesco
a ricordare l’ultima volta che ho dormito senza dover essere pronto a
combattere. Anche nel silenzio, sento il trono. È come se mi chiamasse ancora.»
«Il trono?»
«Non il
trono di pietra, ma quello dentro. Quello che ti dice che devi essere forte,
che non puoi fermarti, che se lo fai il mondo cadrà a pezzi.»
Elyos restò
in silenzio per un momento, poi posò la mano sul tavolo, vicino alla sua.
«A volte il
mondo può anche aspettare,» mormorò. «E tu puoi semplicemente essere un ragazzo
che beve un bicchiere d’acqua di notte.»
Lui la
guardò, sorpreso da quella semplicità.
«Un
ragazzo,» ripeté, come se assaggiasse la parola per la prima volta.
Atem abbassò
lo sguardo.
«Non so come
si fa. A non sentirmi responsabile di tutto.»
Elyos si
alzò, prese la brocca e riempì di nuovo il bicchiere.
«Si comincia
così,» disse, porgendoglielo. «Con un sorso d’acqua, e qualcuno accanto che ti
ricordi che non devi portare il cielo da solo.»
Lui accettò
il bicchiere, le dita che sfiorarono appena le sue.
«Quando ero
nel tempio,» disse piano, «a volte guardavo il trono vuoto e immaginavo di
potermi sedere altrove. Di essere solo un ragazzo con un nome, non un titolo.»
«E ora
puoi,» rispose Elyos, con dolce fermezza. «Puoi scegliere dove sederti. E con
chi.»
Per un attimo, nessuno parlò. Solo il rumore lontano della città, come un mare in miniatura sotto di loro.
Poi Atem chiuse gli occhi, inspirò lentamente, e lasciò andare un sospiro lungo, quasi un sollievo.
Elyos gli
sorrise, passandogli una mano fra i capelli con un gesto spontaneo, materno.
«Esatto,
piccolo re. È il silenzio che fa posto al cuore.»
E in quel
silenzio, finalmente, Atem parve addormentarsi davvero — seduto, con il capo
reclinato e la pace che, per la prima volta, non sembrava un sogno.
Elyos restò
a guardarlo per un momento, poi spense la luce.
Nella
penombra, il cristallo a forma di stella brillava piano, come un cuore che
aveva imparato a battere da solo.
Elyos lo
osservò per un po’, finché il suo respiro non divenne regolare.
Le dita
ancora intrecciate al bicchiere, la fronte che quasi toccava la manica della
camicia.
Con infinita
pazienza, gli tolse il bicchiere dalle mani, lo posò sul tavolo e gli passò un
braccio intorno alle spalle.
«Andiamo,
piccolo re,» sussurrò.
Lui non
rispose, ma si lasciò guidare, mezzo addormentato.
Ogni passo
era un piccolo cedimento, una resa, ma Elyos non lo spinse mai: lo accompagnò
come si accompagna un bambino che ha lottato troppo contro la notte.
Quando
arrivarono al letto, lo aiutò a sdraiarsi.
Lui mormorò
qualcosa di incomprensibile, poi si raggomitolò istintivamente, la mano che
cercava il ciondolo sul petto come un talismano.
Elyos tirò
su la coperta fino alle spalle, accarezzandogli i capelli.
«Adesso sì,»
mormorò piano. «Adesso il trono può tacere davvero.»
La luce
della luna, filtrando dalle tende, disegnò un profilo quieto: niente re, niente
eroe, solo un ragazzo che finalmente dormiva.
(immagine di Pinterest)
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Il cielo di
ottobre aveva il colore dell’ambra.
L’aria era
limpida, tagliata da una luce chiara che sembrava non voler appartenere a
nessuna stagione precisa.
Atem era in
piedi davanti alla finestra, lo sguardo fisso verso l’orizzonte.
Da dietro,
Elyos lo osservava in silenzio.
C’era
qualcosa di diverso nel suo portamento: la schiena più dritta, lo sguardo
concentrato, una calma che non era pace ma preparazione.
Non era più
soltanto il ragazzo che la sera prima si era addormentato sul tavolo.
Era tornato
il faraone — e tuttavia, dentro di lui, il ragazzo non era svanito.
Elyos si
avvicinò piano, posandogli come sempre una mano sulla spalla.
«Hai dormito
ancora un po’? Hai mangiato qualcosa?»
Lui sorrise,
ma non rispose.
Aveva già lo
sguardo di chi sente il dovere prima ancora del giorno.
Elyos
sospirò piano, poi gli sistemò il colletto della giacca — un gesto semplice, ma
pieno di cura.
«No,» lo
corresse lei dolcemente. «Lo *sei* già. Ma non devi dimenticare che non sei da solo, oggi.»
Lui la
guardò, come per assicurarsi che davvero intendesse seguirlo.
E quando
vide nei suoi occhi la stessa determinazione di sempre, annuì.
Uscirono
insieme, e il tragitto verso il museo trascorse in un silenzio pensoso.
Le strade
pullulavano di gente, ma attorno a loro sembrava esserci una calma sospesa,
come se il mondo stesso trattenesse il fiato.
Appena
varcarono l’ingresso del museo, l’atmosfera cambiò.
L’aria era
più densa, come se un’eco invisibile avesse riconosciuto il giovane re e gli
stesse sussurrando il suo nome.
Elyos lo
notò subito: Atem rallentò il passo, gli occhi fissi sulle teche illuminate.
Ogni oggetto
sembrava emanare una vibrazione sottile, familiare.
Quando si
fermò davanti alla sala principale, quella dove l’attendeva la mostra, lei gli
prese la mano.
«Respira,»
sussurrò.
Lui lo fece.
Ma al suo respiro rispose un brivido d’aria, come un soffio antico che si
alzava dalle pietre stesse.
Un lampo di
energia passò sulle pareti, così rapido che solo lui parve notarlo.
«Elyos…
qualcosa è sveglio.»
«Cosa?»
Lui non fece
in tempo a rispondere.
Un’esposizione
centrale, protetta da un vetro spesso, iniziò a vibrare.
La tavoletta
con il simbolo dell’occhio brillò per un istante, come se un bagliore interno
la percorresse.
Un suono
basso, profondo, riempì la sala — e in quel momento Atem si irrigidì.
Un istante
dopo, Elyos lo spinse via di colpo.
Fu un gesto
istintivo, quasi animalesco: lo prese per le spalle e lo tirò indietro, mentre
una crepa si apriva sul vetro e una scarica di luce attraversava la teca.
«Atem!»
Lui cadde,
ma si rialzò subito.
Nel suo
sguardo non c’era più paura. Solo una determinazione calma e antica.
«Sta
cercando di venire fuori,» disse, e la sua voce non era più quella del ragazzo.
Era quella del re.
«Allora non
gli permetteremo di farlo.»
«Non dirlo a
una madre, piccolo mio,» rispose lei con un sorriso fermo.
Poi, senza
pensarci, si voltò verso una delle teche laterali.
Tra i
reperti esposti, un antico arco cerimoniale era fissato a una base di vetro.
Con un gesto
deciso — e forse un po’ folle — afferrò il supporto e lo sollevò.
Atem la
guardò, stupito.
«Cosa…?»
«Non so
usarlo bene come il mio a casa,» ammise lei, «ma so che non resterò ferma a guardare se qualcuno
minaccia mio figlio.»
Per un istante, il faraone e la donna si guardarono, e nel loro silenzio non c’era più paura, né distanza.C’era un legame che attraversava il tempo: un re e la sua madre adottiva, pronti a difendere la pace che avevano costruito.
La luce
tremolò ancora, poi si spense.
Nel
silenzio, Atem avanzò, la mano sollevata.
Il simbolo
sulla tavoletta si quietò lentamente, come se avesse riconosciuto la presenza
di chi aveva giurato di custodire il mondo.
Solo allora
lui parlò, con voce bassa ma ferma:
### **Capitolo
14 – Le sabbie che ricordano**
Il museo era un animale diverso al calar del pomeriggio: i corridoi lunghi trattenevano gli ultimi riverberi del sole, le teche brillavano come piccole isole nel silenzio.
Dopo il bagliore, la direzione aveva fatto evacuare parte della sala; i
visitatori, ancora un po’ confusi, si raggruppavano all’esterno, bisbigliando
fra loro.
Un passo deciso ruppe il silenzio.
Una donna con una targhetta al collo — capelli
legati, occhiali sottili, lo sguardo di chi passa la vita a mettere insieme
storie — si fece avanti.
«Sono la dottoressa Ishi,» disse, la voce ferma. «Sono la curatrice della mostra.»Si avvicinò alla teca, guardò la tavoletta, poi sollevò lo sguardo verso Atem con un’espressione che mescolava stupore e qualcosa di simile al riconoscimento.
«Quella incisione… non dovrebbe essere qui.»
Atem la
sentì dire il suo nome senza che lei lo avesse pronunciato davvero; fu un
sussurro nell’aria, come se la sala avesse tradotto il suo passato in una
parola. «Cosa intende?» chiese lui, la voce che tradiva una cautela antica.
La dottoressa prese un tablet e scorré alcune foto con le dita. «Il manufatto proviene da un sito aperto pochi mesi fa, scavi autorizzati e poi fermati per irregolarità. Ma il problema non è quello — è la datazione.
La tavoletta mostra
uno stile che precede molte delle nostre carte. I simboli… appaiono in quasi
tutte le teorie sul culto del respiro, ma così dettagliati non li ho mai
visti.»
Elyos la
osservava, attenta. «Vuol dire che non è una semplice replica? Che è
autentica?»
«E c’è di più: alcuni dei segni corrispondono a iscrizioni che sono state trovate — parzialmente — nelle cronache che citano un regno di cui si sa pochissimo. È come se qualcuno l’avesse riportata alla luce ora, come se fosse tornata a chiamare.»
Un mormorio attraversò la sala.
Atem sentì il petto stringersi: non era solo la tavoletta,
pensò; era la sensazione che sparsi nella pietra ci fosse ancora un respiro che
chiedeva ascolto.
«Ma rischiamo di perdere informazioni immediate. Dobbiamo capire se è stabile.»
Atem si fece
avanti, la voce calma e netta come una lama. «Non portatela via. Lasciatela
qui, ma… ditemi tutto quello che sapete.»
«Io ho visto
certe immagini,» rispose lui, senza aggiungere altro. «Non per raccontare
storie. Ma perché se c’è qualcosa che può collegare il passato al presente, è
meglio capirlo insieme.»
Elyos sentì salire in lui la vecchia decisione del re: proteggere la vita attorno a sé.
Ma ora non era solo difesa, era ricerca — una volontà di chiudere un cerchio senza far ferire altri.
Lei gli strinse la mano, appena: un piccolo gesto che gli
ricordò che non avrebbe marciato da solo.
La dottoressa chiamò una sala attigua e invitò i due a seguirla.
Lì, tra registri
e lucidi strumenti, cominciò a spiegare. «Il manufatto è stato recuperato in
una fenditura risalente a scavi non convenzionali. Alcuni frammenti trovati lì
raccontano di riti che usavano il simbolo per canalizzare l’energia vitale di
una comunità. Non era soltanto culto: era scienza sacra, una tecnologia rituale
che legava la natura al comando umano.»
Atem
ascoltava, ogni parola come una pezza che riattraversava il suo tessuto di
ricordi. «E se quella tecnologia venisse usata di nuovo?» chiese, la voce
trattenuta. «Se qualcuno sa ricomporla e richiama ciò che abbiamo chiuso?»
Elyos inspirò piano.
La paura che aveva tentato di nascondere lungo il viaggio tornò
a farsi sentire, ma era una paura che non paralizzava: era la fiducia che, se
affrontata, poteva essere messa al servizio di una scelta.
«Documentare,
proteggere, e — se possibile — leggere le iscrizioni con strumenti più
delicati. Abbiamo bisogno di qualcuno che capisca la lingua antica e qualcuno
che sappia ascoltare i resti. Potrebbe volerci tempo.»
Atem chiuse
gli occhi per un istante e aprì le mani sul tavolo. «Allora iniziamo subito.
Mentre voi fate i test, io voglio rivedere i registri degli scavi. Voglio
capire la provenienza. E se c’è una minaccia…» la sua voce si fece più dura
«…io la affronterò. Ma non da solo.»
Elyos lo
guardò, il cuore stretto. «Non ti lascerò solo,» disse. «Mai.»
La
dottoressa Ishi si voltò verso di loro con un mezzo sorriso, la professionalità
che riprendeva il posto del turbamento. «Se siete davvero interessati, potremmo
chiedere l’accesso agli archivi preliminari. E se lei, signore, ha ricordi che
possano aiutarci a decifrare il contesto, sarebbe… prezioso.»
Atem la
fissò, curioso e concentrato, come se in quel momento misurasse la distanza fra
il suo passato e il presente. «Vi parlerò,» disse. «Ma solo se voi mi
ascolterete senza cercare di incatenarmi a un ruolo già scritto.»
La donna
annuì. «Ascolteremo. Noi, gli archeologi, raccontiamo storie. E a volte le
storie hanno bisogno di chi le ha vissute.»
Quando uscirono dalla stanza, la luce del pomeriggio aveva preso un tono più dolce. Sapevano che il cammino sarebbe stato lungo: non bastava proteggere la tavoletta, bisognava capire cosa aveva causato la sua comparsa.
E mentre
camminavano, Elyos tenne la mano di Atem come una promessa senza parole — la
promessa che, qualunque cosa fosse tornata, avrebbero trovato insieme la strada
per non farle fare del male al mondo dei vivi.
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**Capitolo 15 – La pietra che risponde**
Il museo di
notte aveva un suono diverso.
Non era più
il mormorio delle voci o il tintinnio dei passi, ma un respiro profondo,
antico, che sembrava provenire dalle mura stesse.
Gli archivi,
situati nel seminterrato, erano immersi in una luce pallida. Scaffali ordinati,
fascicoli legati con spago, odore di carta e di polvere.
La
Dottoressa Ishi stava già aspettando.
Indossava un
camice chiaro, i capelli raccolti in una treccia bassa e lo sguardo calmo di
chi ha imparato a non stupirsi mai del passato.
Sul tavolo,
una pila di documenti e una vecchia mappa ingiallita.
«Avete fatto
bene a tornare,» disse, senza alzare la voce.
«Dopo
l’incidente di oggi, ho ritenuto necessario approfondire alcuni materiali che
non avevo ancora mostrato al pubblico.»
Elyos la
salutò con un sorriso cortese, ma notò subito che Atem era diverso: il suo
sguardo era attento, ma dentro vi brillava qualcosa che non era semplice
curiosità.
Era come se
ricordasse ogni linea di quella mappa ancor prima di vederla.
l'archeologa posò
una lente d’ingrandimento sul foglio.
«Questo è il
punto esatto da cui proviene la tavoletta. Un luogo chiamato *Wadi el-Res*, una
depressione sabbiosa vicino al corso di un fiume scomparso da millenni. Ma c’è
qualcosa di strano: secondo gli appunti di uno degli archeologi, le iscrizioni
sembrano essere state… aggiornate. Come se qualcuno le avesse riscritte molto
tempo dopo l’epoca originale.»
«Aggiornate?»
ripeté Elyos. «Da chi?»
La dottoressa sollevò
lo sguardo. «È quello che voglio capire. C’è un passaggio nelle note di campo
che parla di una “scrittura che cambia forma sotto la luce diretta”. Ho pensato
fosse un’esagerazione, ma dopo ciò che è accaduto oggi…»
Atem si
avvicinò.
Le sue dita
sfiorarono appena la pergamena, e in quell’istante le linee tracciate
sembrarono vibrare, come se un soffio invisibile passasse sopra l’inchiostro.
La luce del
neon oscillò per un momento, poi tornò stabile.
La dottoressa Ishi lo
osservò, senza spavento.
«Lo sospettavo,»
disse piano. «Lei non è solo un visitatore.»
Elyos fece
per parlare, ma Ishi alzò una mano.
«Non è una
domanda, signora. È un’intuizione. In Giappone diciamo: *“Kaze ga fuita toki,
ishi wa kotaeru”* — quando soffia il vento, la pietra risponde.
E adesso… il
vento ha soffiato.»
Atem rimase
immobile, poi la guardò negli occhi.
«Lei lo
sente, vero? Quel legame… come se la pietra stessa respirasse.»
Elyos
strinse le braccia, come per proteggersi da un brivido. «Vuol dire che quella
tavoletta lo stava aspettando?»
«Forse. O
forse aspettava entrambi. Chi risveglia il passato non è mai solo.»
Un silenzio
carico riempì la stanza.
Atem inspirò
piano, poi guardò Elyos.
«Se è vero,
allora non possiamo più limitarci a studiarla. Dobbiamo capire chi l’ha portata
qui, e perché adesso.»
La
Dottoressa Ishi spostò un fascicolo verso di loro.
«C’è un nome
negli appunti: un certo Professor Alden, inglese. Ha lasciato l’Egitto subito
dopo il ritrovamento, e pare che la tavoletta sia arrivata qui tramite la sua
fondazione. Nessuno sa dove sia adesso.»
Atem toccò
il fascicolo, sentendo una fitta improvvisa, come un ricordo che non
apparteneva a questa vita.
Digrignò i denti stringendo le mani vicino al cuore,e immediatamente le mani di Elyos si povrapposero alle sue.
«Lo
troveremo,» disse piano, ritrovando il suo ritmo respiratorio. «E se quella pietra ha scelto di risvegliarsi, allora…
ci racconterà il perché.»
Ishi sorrise
lievemente.
«Attenti,
però. Le pietre non parlano con parole. Raccontano con sogni.»
Capì allora
che quella notte non avrebbe dormito.
Il leone si
era svegliato, e il vento aveva appena cominciato a soffiare.
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**Capitolo 17 – Il sogno del leone**
Il silenzio
era profondo, come solo le notti in cui la pioggia ha smesso di cadere sanno
essere.
Atem dormiva
sul divano, la testa reclinata su un cuscino troppo grande per lui.
La coperta
che Elyos gli aveva sistemato scivolava piano sul pavimento, mentre un raggio
di luna si rifletteva sul vapore ormai tiepido del cioccolato.
Fu allora
che il sogno cominciò.
Non un
incubo, ma un richiamo.
Un campo di
sabbia dorata, vasto come il mare, e al centro — il trono.
Vuoto.
Intorno, la
luce del tramonto tingeva tutto di rame e miele.
Atem
camminava scalzo, la sabbia che gli sfiorava i piedi, e nel silenzio sentì la
voce.
Non
proveniva da fuori, ma da dentro.
«Non temere
la quiete, giovane re. Il deserto non è vuoto: è memoria.»
Davanti a
lui, nella sabbia, un simbolo cominciò a brillare — lo stesso inciso sulla
tavoletta che aveva visto al museo.
Ma ora non
faceva paura: emanava calore, come una promessa.
«Tu non sei
tornato per combattere» disse la voce, «ma per ricordare. Non c’è colpa nel
respiro, solo vita che continua in un’altra forma.»
Atem si
inginocchiò.
Per la prima
volta non pianse, non tremò.
Si limitò a
chiudere gli occhi e a lasciarsi attraversare da quella luce, sentendo che
dentro di lui qualcosa si scioglieva, come neve al sole.
E mentre la
visione svaniva, l’ultima cosa che vide fu una figura in lontananza — una donna
con i capelli corti mossi dal vento, che lo osservava con un sorriso calmo.
“Elyos…”
mormorò.
E capì che,
ovunque andasse, quella presenza sarebbe rimasta.
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**Capitolo 18 – L’alba del respiro**
La luce
filtrava pigra tra le tende, accarezzando la stanza con i primi raggi
dell’alba.
L’odore del
caffè si mescolava a quello della pioggia che ancora evaporava dal balcone.
Elyos, in
vestaglia, si muoveva in silenzio per non svegliarlo: un gesto che ormai le
veniva naturale.
Il suo viso
era disteso, finalmente libero da quella tensione sottile che di solito gli
increspava la fronte.
Solo il
medaglione — ormai privo di luce — giaceva accanto a lui, come un testimone
muto di qualcosa accaduto altrove.
Elyos si
fermò accanto a lui, sorseggiando piano la sua tazza.
“Stanotte
hai viaggiato, vero?” mormorò con un sorriso.
Non serviva
una risposta.
Lo capiva dal ritmo calmo del suo petto, da quell’ombra di
pace che ora gli addolciva i tratti.
Atem si
mosse appena, aprendo lentamente gli occhi.
«È mattina?»
sussurrò, la voce ancora velata di sonno.
«Già da un
po’. Ma puoi dormire ancora, se vuoi.»
Lui si tirò
su, sfregandosi gli occhi come farebbe un bambino.
«No… ho
fatto un sogno.»
Si guardò
attorno, come per assicurarsi che fosse davvero sveglio.
Poi, dopo un
lungo silenzio, aggiunse:
«Credo di
aver capito perché sono tornato.»
Elyos non
chiese nulla.
Si limitò a
sedersi accanto a lui, poggiandogli una mano tra i capelli ancora scompigliati.
«Allora è
stato un sogno importante.»
Atem annuì
piano, fissando la finestra.
Fuori, il
sole saliva lento, dissolvendo la nebbia in scie dorate.
«Sì. Ma… non
era solo un sogno. Era come se… il deserto mi parlasse. E c’eri anche tu.»
«Io?» chiese
Elyos, sorpresa ma con un sorriso tenero.
«Sì. Ma non
eri triste. Sorridevi. E mi hai fatto capire che… non tutto ciò che si perde è
finito davvero.»
Lei rimase
in silenzio per un momento, poi lo abbracciò piano, senza dire una parola.
E lui si
lasciò andare a quell’abbraccio, come chi finalmente smette di lottare contro
la corrente.
Sul tavolo,
due tazze di cioccolata calda fumavano ancora, dimenticate.
Eppure, in
quella quiete fragile e perfetta, nessuno dei due aveva bisogno di nient’altro.
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### **Capitolo 20 – Il nome nella sabbia**
Il fascicolo
era sottile, ma bastò uno sguardo per accendere la scintilla negli occhi di
Atem.
Elyos lo
aprì sul tavolo, spostando le tazze vuote di cioccolata.
Le pagine
odoravano di carta vecchia e polvere di viaggio.
«Eccolo
qui,» disse piano. «Professor Arthur Alden, archeologo britannico, ultimi scavi
nel deserto di Wadi el-Res. Disperso durante una tempesta di sabbia… vent’anni
fa.»
Atem sfiorò
il nome con un dito.
Non c’era
tristezza nei suoi occhi, ma un lampo deciso, come se avesse appena sentito una
voce lontana.
«Non è
disperso,» mormorò. «È ancora parte del legame. E ci sta aspettando.»
Elyos
sorrise piano. «Hai di nuovo quello sguardo, piccolo re. Quello da ‘non mi
fermerò finché non avrò trovato la verità’.»
«Forse
perché la verità non è solo sua,» rispose lui, alzandosi. «È anche mia. Se
quella pietra è stata riportata alla luce, è perché c’è ancora qualcosa da
purificare. Il mondo non dimentica le ferite del tempo finché non vengono
guarite.»
Sul fondo
del fascicolo c’era una fotografia ingiallita: un uomo con un cappello a tesa
larga, in piedi accanto a una lastra di pietra coperta da sabbia.
Dietro di
lui, inciso su un muro, lo stesso simbolo dorato della tavoletta.
Ma accanto
al segno, Elyos notò un’iscrizione che non era stata trascritta.
«Atem,
guarda qui. Puoi leggerlo?»
Lui si
chinò.
Le sue dita
seguirono i tratti delle lettere come se le avesse incise lui stesso, millenni
prima.
Poi
tradusse, la voce più bassa, ma ferma:
«‘Quando il respiro
del re incontra il respiro del mondo, la bilancia tornerà in equilibrio.’»
Elyos lo
fissò. «Sembra… una profezia.»
«O un
promemoria,» rispose lui, con un mezzo sorriso. «Forse il mondo non ha bisogno
di un re, ma di qualcuno che ricordi come si respira in pace.»
Le sue
parole lasciarono un silenzio pieno di vita.
Poi, quasi
in un gesto automatico, si voltò verso la finestra.
La città
sotto di loro brillava come un mare moderno, e nel riflesso del vetro, per un
attimo, Elyos vide non il ragazzo, ma il faraone — lo stesso sguardo, la stessa
postura, la stessa calma regale.
«Andremo a
cercare questo Alden?» chiese lei.
Elyos rise
piano, quella risata dolce e luminosa che per lui era ormai casa.
«Allora mi
preparo. Perché conosco te, piccolo re: quando decidi di muoverti, il mondo
intero deve tenere il passo.»
Lui le
sorrise, con quella luce viva che aveva ritrovato solo da poco.
«Non è il
mondo che deve seguirmi, zia. È il vento. E io… ho di nuovo voglia di
sentirlo.»
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### **Capitolo 21 – Il vento del ritorno**
La mattina
successiva, la casa era immersa in una calma quasi irreale.
Elyos aveva
passato la notte a fare liste: documenti, medicine, un cambio di vestiti, la
guida del deserto.
Atem invece
sembrava muoversi in un ritmo tutto suo — misurato, concentrato, ma con un
lampo di vita negli occhi che lei non gli vedeva da tempo.
Sul tavolo,
la foto del Professor Alden era circondata da appunti e cartine logore.
Una linea
tracciata a matita univa Alessandria al Wadi el-Res, come una rotta tracciata
sulla mappa di un veliero.
«Sai cosa mi
ricorda?» disse Elyos, allungando un dito sulla linea. «Un viaggio in mare. La
meta la vedi solo alla fine, ma intanto è il vento che ti guida.»
Poi, come
per caso, aprì la finestra.
Un refolo
d’aria entrò di colpo, attraversando la stanza.
I fogli si
sollevarono, il vapore del caffè danzò come un piccolo spirito, e uno dei libri
aperti si chiuse con un tonfo leggero.
Elyos
scoppiò a ridere. «Ecco, vedi? Persino lui è d’accordo.»
Ma Atem era
rimasto immobile, lo sguardo perso nel vuoto.
«È lo stesso
suono,» mormorò.
«Quale
suono?»
«Il respiro
del deserto. Quando soffiava tra le colonne del tempio, portava con sé le voci
degli antichi. Dicevano che era il modo in cui gli dei ricordavano ai re chi
erano davvero.»
Elyos lo
osservò in silenzio, mentre il vento le scompigliava i capelli.
C’era in lui
una fierezza nuova, antica e fresca allo stesso tempo — come se stesse tornando
a essere ciò che era sempre stato, ma con un’anima più leggera.
«Ogni rotta
ha il suo vento, Elyos. E questo… è il mio.»
Fu in quel
momento che la porta bussò.
Un corriere,
un pacco sigillato con un timbro universitario.
Elyos firmò, curiosa.
Dentro, c’era una piccola bussola d’ottone, avvolta in carta velina.
Sul retro,
incisa con cura, una frase in inglese antico:
> —
*Alden*
Elyos e Atem
si scambiarono uno sguardo lungo, complice.
«Il vento ci
ha già trovato,» disse lei, con un sorriso che sapeva di promessa.
«Allora
salpiamo.» rispose lui, stringendo la bussola nella mano.
Le tende si
gonfiarono come vele, e per un istante la stanza sembrò davvero muoversi — non
verso un luogo, ma verso un destino.
---
###
**Capitolo 22 – Rotta verso il Wadi**
L’aereo
lasciò alle spalle la città, e sotto di loro il Mediterraneo brillava come una
distesa di vetro liquido.
Elyos
guardava fuori dal finestrino, ma il suo sguardo andava più in là: verso il
ragazzo accanto a lei, che non riusciva a staccarsi dal panorama.
«È tutto…
acqua?» chiese Atem, la voce un misto di incredulità e timore.
«Tutta,»
rispose Elyos, sorridendo. «E sotto quell’acqua vive un mondo intero.»
Per un lungo
tratto rimasero in silenzio, finché il comandante non annunciò una breve
deviazione per il vento favorevole.
Fu allora
che, guardando verso il basso, Elyos vide qualcosa: sagome argentee che
danzavano vicino alla superficie, saltando e scomparendo tra le onde.
«Guarda!»
disse, toccandogli il braccio.
Atem si
chinò, e per un attimo il suo viso si illuminò come quello di un bambino.
«Sono…
vivi?»
«Sì, sono
delfini. Viaggiano in gruppo, come piccole tribù. Amano seguire le navi e gli
aerei bassi, forse per curiosità, o forse per giocare.»
Un sorriso
ampio gli si aprì sul volto.
«Sembrano
spiriti del Nilo… ma più felici.»
Lui rimase
senza fiato.
«Cosa…
cos’è?»
«Una
balena,» rispose Elyos, commossa da quella reazione. «Un gigante buono. Respira
come noi, ma vive tra le profondità. Quando riemerge, soffia via l’acqua per
poter inspirare ancora.»
Atem non
rispose subito.
Continuò a
guardare, gli occhi lucidi.
«È
bellissimo… così grande, eppure così gentile. Come se il mondo stesso
respirasse con lei.»
«Forse è
proprio così, Atem. Il mare, il vento, la terra… tutto respira insieme. Noi ci
limitiamo ad ascoltare.»
Quando il getto della balena si dissolse nell’aria, lui chiuse lentamente gli occhi, posando la fronte contro il vetro.«Allora… anche io voglio imparare a respirare così. Non come un faraone, ma come il mondo.»
Elyos gli
prese la mano, e lui gliela lasciò stringere senza parole.
Fu in quel
momento che capì che il viaggio era appena cominciato — non quello verso il
deserto, ma quello verso la pace.
---
L’aereo
toccò terra con un leggero sobbalzo.
Fuori,
l’aria era diversa: calda, densa, profumata di sole e di spezie.
Elyos scese per
prima, stringendo la borsa contro il petto, e quando voltò lo sguardo verso la
pista vide Atem che si fermava, immobile, con gli occhi spalancati.
Davanti a
lui si stendeva l’Egitto.
Non quello
dei libri o dei musei, ma il suo — vivo, pulsante, bruciato di luce.
Il vento del
deserto lo colpì in pieno viso e per un istante parve riconoscerlo.
Chiuse gli
occhi e inspirò profondamente.
Elyos gli
sorrise, posandogli una mano sulla spalla.
«Ben tornato
a casa, piccolo re.»
Solo il modo
in cui le sue dita si mossero, sfiorando la sabbia ai bordi della pista,
raccontava tutto: nostalgia, stupore, un filo di paura, ma soprattutto
riconoscenza.
Li aspettava
la dottoressa Ishi, in abiti leggeri, il volto illuminato da un raro sorriso.
«Avete fatto
buon viaggio?» chiese.
«Allora
venite. Il campo è pronto. Il deserto è impaziente di conoscervi.»
---
La jeep
correva lungo una strada che si perdeva verso l’orizzonte.
La sabbia,
mossa dal vento, disegnava onde e creste che mutavano a ogni soffio.
Atem
guardava fuori dal finestrino, la bussola di Alden stretta in mano.
Ogni tanto la
girava, e l’ago sembrava impazzire, come se non sapesse distinguere più il nord
dal ricordo.
«Allora
funziona perfettamente.»
Il sole
cominciava a calare quando il campo apparve all’orizzonte: tende color ocra,
strumenti, torce, e in lontananza le prime sagome delle rovine.
Atem sentì
il cuore battere più forte.
Non per
paura, ma per riconoscimento.
Quel luogo
lo chiamava.
Un suono
profondo, basso, che attraversava le dune come un canto antico.
E per un
momento, Elyos giurò di aver udito qualcosa tra le folate — una parola, o forse
solo un nome.
Lui si
voltò, come se avesse sentito anche lui.
Ma sorrise
soltanto.
«Sì… sono
qui.»
Elyos lo
guardò, e in quel sorriso vide la pace che aveva sempre sperato per lui.
Perché forse
il viaggio non era per tornare indietro — ma per imparare, finalmente, a
restare.
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**Capitolo 24 – Il canto della sabbia**
Il campo si
era assopito sotto la luce dorata del tramonto.
Solo il
vento continuava a muoversi, carezzando le dune e i resti di colonne ormai
spezzate.
Atem
camminava da solo tra le rovine, i piedi affondati nella sabbia calda, la
bussola del dottor Alden appesa al collo come un talismano.
Ogni pietra
sembrava conoscerlo, ogni ombra sembrava chinarsi al suo passaggio.
E più
avanzava, più il mondo moderno scompariva — finché non restarono che la luce,
il vento e il respiro del tempo.
Elyos lo
seguiva a distanza, rispettando quel momento.
Sapeva che
non poteva condividere del tutto quella memoria, ma poteva **esserci**, pronta
a tendere una mano se il passato avesse fatto troppo male.
Atem si
fermò davanti a una parete incisa, annerita dal tempo.
Sotto la
sabbia affioravano geroglifici e disegni quasi cancellati.
Le sue dita
tremarono mentre tracciava i contorni di un volto: il profilo di un giovane re con la corona in testa e un grosso manufatto trangolare in mano.
La voce gli
uscì come un soffio.
Non c’era
vanità, solo stupore, e un’ombra di tristezza.
«Avevo
dimenticato il suono delle mie stesse pareti.»
Nel fruscio,
Elyos ebbe l’impressione di udire parole — non chiare, ma dolci, come un coro
lontano.
Atem chiuse
gli occhi e restò immobile.
Quando li
riaprì, il suo sguardo era pieno di luce.
Sul bordo,
una figura minuscola: un fiore di loto, simbolo della rinascita.
Sorrise.
«Questo lo
tenevo sul tavolo vicino al letto… la prima cosa che guardavo ogni mattina.»
Poi,
improvvisamente, si irrigidì.
Un’ombra
scura attraversò il suo viso.
Aveva
toccato un altro frammento, coperto di sabbia, più grande, annerito dal fuoco.
Lo sollevò.
C’erano
incisioni spezzate, e una parola incompleta — ma Elyos la vide chiaramente:
*tenebra*.
Il vento si
alzò ancora, più cupo, e l’aria odorò di tempesta.
Atem rimase
fermo, la sabbia che gli frustava il viso, gli occhi fissi su quel frammento.
«Questa è la
parte che non ricordavo,» disse, quasi tra sé. «La notte in cui tutto bruciò.
La paura. Il buio che mi prese. La decisione di....Ma non importa…»
Alzò lo
sguardo verso il cielo che si incendiava di arancio e porpora.
«Non
importa, perché adesso so che non è finita. Posso ancora purificare quello che
resta. Le ombre, anche loro, hanno bisogno di luce.»
Elyos gli
raggiunse il fianco, sfiorandogli il braccio nudo.
«Hai fatto
pace con le tue rovine, piccolo re.»
Atem inspirò
a fondo, lasciando che il vento gli entrasse nei polmoni.
«No,»
rispose piano. «Ho appena cominciato ad ascoltarle.»
Il vento
smise di soffiare.
Solo allora,
nel silenzio, si udì un suono leggero, quasi un mormorio tra le pietre:
un canto.
Un canto
antico e sommesso, che parlava di vita, di morte e di ritorno.
Il **canto
della sabbia**.
---
Atem rimase
ancora un momento immobile, poi si chinò e raccolse il fiore di loto.
Lo tenne nel
palmo, leggero come un sospiro.
La luce del
tramonto lo attraversava, e per un istante parve che i petali incisi
riflettessero il colore dell’alba.
«Non
appartiene più alle rovine,» disse piano. «Appartiene al ricordo. E il ricordo,
ora, sono io.»
«Allora
portalo con te, piccolo re. Ti appartiene.»
Lui annuì.
Infilò con
delicatezza il frammento in una piccola tasca interna della tunica, vicino al
cuore.
Poi si voltò
verso il deserto che ormai si spegneva nella sera.
«Non lascerò
che si perda di nuovo. Finché avrò respiro, ricorderò chi siamo stati… e chi
possiamo ancora essere.»
Il vento
soffiò lieve, come per dargli ragione
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**Capitolo 25 – Il segno del passaggio**
Il vento si
era calmato, e il silenzio che rimase non era vuoto: era quiete.
Atem
guardava la sala del trono con occhi diversi.
Non più come
un sovrano che torna a reclamare il suo posto, ma come un viaggiatore che
comprende di aver finito la sua rotta.
Sulla pietra
del trono, le sue dita cercarono un punto liscio, ancora intatto.
Prese un
frammento di ceramica — il loto — e con il bordo incise un piccolo segno: una
spirale semplice, aperta verso l’alto.
Niente
geroglifici, nessun nome. Solo la traccia del movimento, del **passaggio**.
«Cosa stai
scrivendo?» chiese Elyos, la voce appena un soffio.
«Nulla che
si possa leggere,» rispose lui. «Solo qualcosa che si possa sentire.»
L’aria si
mosse piano, come per accompagnare quel gesto.
Elyos pensò
che, se mai qualcuno fosse entrato lì nei secoli futuri, avrebbe sentito la
stessa calma che ora riempiva la stanza.
Non sembrava
più portare il peso dei secoli, ma la leggerezza di chi ha restituito ciò che
doveva.
Si voltò
verso il trono e chinò appena il capo — un saluto, non un addio.
Poi guardò
Elyos.
«Andiamo. Ho
lasciato quello che dovevo. Adesso il deserto può dormire.»
Elyos annuì,
stringendogli la mano.
«E tu puoi
continuare a camminare.»
Mentre
uscivano, il sole al tramonto filtrò dalle fessure tra le colonne, disegnando
la spirale incisa di luce dorata.
Per un
istante, parve muoversi.
### **Capitolo 26 – La voce del vento
e della pietra**
Il deserto
era calmo, ma non muto.
Dopo il
tramonto, il vento si era placato, lasciando nell’aria un silenzio denso,
carico di presagi.
Elyos
aiutava Ishi a sistemare le carte quando un suono sordo, breve, corse sotto i
loro piedi: non un rombo, ma come un battito profondo nella sabbia.
«Hai
sentito?» domandò Elyos.
«Forse un
assestamento,» rispose Ishi, ma la voce le tremava un poco.
Atem si
avvicinò, incuriosito.
Si chinò,
raccolse un pugno di sabbia e lo lasciò scivolare piano.
Ogni
granello gli sembrò più freddo del normale, come se trattenesse un ricordo.
«Questa
terra… ha assorbito paura,» disse piano.
Non c’era
magia in quelle parole, solo consapevolezza.
«Qualcuno
l’ha toccata con troppo desiderio di sapere. Il deserto ha trattenuto la sua
impronta.»
Ishi tacque,
poi accese il rilevatore di densità.
Sul monitor
comparve una piccola anomalia — una cavità, non più profonda di due metri, con
una temperatura più bassa del terreno circostante.
Elyos si
chinò accanto a lui.
«Può essere
il professore?»
Inspirò
profondamente, come chi si prepara ad ascoltare qualcosa che non si dice con le
parole.
Poi posò il
palmo a terra.
«Non so dove
sia… ma sento che non è andato via. È rimasto *tra due silenzi*.»
Ishi lo
guardò, colpita da quella definizione.
«Tra due
silenzi?»
«E come?»
«Ascoltando
meglio. Non la sabbia, ma ciò che vuole dirci.»
Niente luce,
niente prodigi: solo lui, un ragazzo che aveva imparato a sentire.
---
### **Capitolo 27 – Il bordo
dell’abisso**
La notte era
ferma, come se il deserto avesse smesso di respirare.
Le torce del
campo proiettavano un cerchio di luce tremolante intorno a loro.
Ishi
controllava le apparecchiature, ma i dati sembravano impazziti: linee che
salivano e scendevano, valori incoerenti.
«Sotto di
noi c’è qualcosa,» disse, il tono tra il razionale e l’incredulo.
«O
qualcuno,» aggiunse Elyos, guardando Atem.
Il giovane
si inginocchiò accanto al punto in cui la sabbia sembrava più compatta.
Non si
muoveva, ma emetteva un calore sottile, come se trattenesse il fiato.
Atem posò la
mano. Un brivido gli attraversò il braccio, non di freddo, ma di memoria.
«Non
scavate,» disse piano. «Ascoltate.»
Un suono
basso, quasi impercettibile, cominciò a vibrare sotto di loro: non un lamento,
ma una serie di parole confuse, come sussurrate attraverso l’acqua.
«…non
volevo… capire… troppo…»
Elyos
sussultò.
«Il
professore…?»
La sabbia cominciò a muoversi, non come una tempesta, ma come se un respiro profondo la sollevasse dall’interno.
Un’ombra,
indistinta, prese forma per un istante: non un fantasma, ma una sagoma di
polvere e luce.
«Non vuole
farmi del male. Ma mi chiama. Crede che io possa condurlo oltre.»
Elyos fece
un passo avanti. «E puoi?»
«Sì… ma se
rispondo al richiamo, potrei seguirlo. E non tornare.»
Il vento si
alzò di colpo, portando con sé parole spezzate.
Atem chiuse
gli occhi.
Il suo volto
si distese, sereno.
«Non posso.
Perché il confine non è mio. È tuo.»
Poi la
sabbia collassò dolcemente, come se un peso invisibile fosse stato deposto.
La temperatura
risalì, il vento si calmò, e tra i granelli emerse un oggetto: un piccolo
taccuino avvolto in stoffa cerata.
Sulla
copertina, una frase incisa a mano:
> —
*Alden*
Elyos guardò
Atem.
«Ce l’hai
fatta.»
«Non io. È
stato lui. Ha ricordato che esistono cose che non devono essere svelate, solo
rispettate.»
Il vento
passò tra loro come un saluto.
Lontano, le
stelle parvero brillare un po’ di più.
---
###
**Capitolo 28 – Il Taccuino di Alden**
Fuori, il
deserto urlava.
Il vento si
scagliava contro la tenda con colpi secchi, trascinando la sabbia come un mare
in tempesta.
Dentro, la
luce tremolante della lampada a olio disegnava cerchi dorati sulle pareti di
tela, mentre l’aria profumava di spezie e silenzio.
Atem sedeva
a gambe incrociate, il diario stretto tra le mani.
Non lo apriva, non ancora.
Lo fissava come si guarda qualcosa di sacro, di vivo.
Le sue dita, scure,sottili e forti, tremavano appena, e nella penombra i riflessi dorati della
copertina sembravano pulsare come un cuore antico.
Elyos,
seduta accanto a lui, osservava in silenzio.
Il rumore
del vento pareva lontano, quasi ovattato.
Le bastò
allungare la mano e sfiorargli la punta dei capelli — un gesto lieve, appena un
soffio, ma sufficiente a riportarlo qui, nel presente.
«Non sei più
solo.»
Atem inspirò
piano, poi sollevò lo sguardo verso di lei.
Nei suoi
occhi non c’era più il terrore del ragazzo, ma la calma fragile di chi ha
capito il peso del proprio destino.
Fece un
cenno, aprendo lentamente la copertina del taccuino.
Le pagine
odoravano di sabbia, d’inchiostro asciutto e di un tempo sospeso.
La prima
riga, scritta con una calligrafia incerta, diceva:
> *“Se
qualcuno leggerà queste parole, sappia che la conoscenza non è luce, ma fuoco.
E che chi non sa scaldarsi senza bruciarsi, rischia di restare cenere.”*
Atem sollevò
lo sguardo verso Elyos, come in cerca di un significato.
Lei sorrise
piano, pur sentendo un brivido correre lungo la schiena.
«Continua,
piccolo re. Il deserto ha ancora qualcosa da raccontarci.»
---
Le lettere
sulla pagina sembrarono mutare forma, diventare segni in movimento, neri come
cenere.
Atem
sussultò. Una forte sensazione di gelo gli attraversò la schiena.
«ARGH… qualcosa mi tira dentro!»
La sua mano destra DENTRO la pagina fino al polso...
Elyos lo afferrò per le spalle.
Sentiva la tensione nei muscoli, la pelle fredda.
«Guardami
negli occhi, leoncino, non il libro!»
Le pagine si
contorcevano, e dal buio parve salire un sussurro: un suono di disperazione che
non era umano.
Era la paura
del professore, la sua ossessione, tornata a chiedere un’altra mente, un’altra
anima.
Elyos lo
serrò a sé e lo tiro' indietro con forza.
Non fu un
gesto eroico, solo istinto. Le sue braccia si chiusero intorno a lui con forza come un
mantello.
«Guardami
negli occhi, tesoro. Sei qui, con me. Niente ti porterà via!»
Il vento
all’esterno si placò un poco, la luce tornò a tremolare.
Atem tremava, ma il gelo lentamente si sciolse.
Le parole sul foglio si
immobilizzarono di nuovo, silenziose.
---
### **Capitolo 29 – Il mattino dopo
il vento**
L’alba
filtrava tra i lembi della tenda come acqua chiara.
Il vento,
dopo la furia della notte, pareva essersi addormentato.
Elyos aprì
gli occhi piano: Atem era accanto a lei, la testa appoggiata al suo braccio,
mentre la mano di lei era intorno al suo fianco, come se nel sonno avesse voluto
abbracciarlo appena.
Per un
attimo rimase così, immobile, come una madre che controlla che il respiro del
proprio figlio sia ancora calmo, profondo e regolare.
Quando lui
si mosse, la luce gli colpì gli occhi e il viola delle iridi si accese di
riflessi dorati.
Si imbarazzò
un poco, vedendosi così...accennando un sorriso.
«Buongiorno,
zia.»
Elyos rise
piano, spettinandogli la frangia dorata.
«Buongiorno
a te, piccolo re. Hai dormito finalmente come un ragazzo normale.»
Atem annuì,
guardandosi le mani.
«È strano…
non ricordavo quanto potesse essere bello semplicemente svegliarsi senza dover
combattere qualcosa.»
«Se avete
finito di dormire come due gatti al sole, ho un regalo per voi.»
La
dottoressa Ishi entrò nella tenda con una tazza fumante di caffè e un fascio di
fogli.
«Ho passato
la notte a studiare il taccuino di Alden. Non tutto è leggibile, ma credo che
alcune pagine reagiscano alla luce, come inchiostro sensibile.»
Atem si
raddrizzò, subito attento.
«Vuol dire
che il diario non ha ancora finito di parlare.»
Ishi fece un
cenno.
«Forse non
nel modo che immagini. Guarda qui.»
Appoggiò il
taccuino sul tavolo di legno e sollevò il lembo della tela, lasciando entrare
un raggio di sole.
Sulle pagine
bianche, linee e simboli cominciarono lentamente a emergere, come risvegliati
dal calore.
«È un
codice?»
«Non credo.
Sembra più… una mappa di suoni, come se ogni segno rappresentasse una
vibrazione. Forse è ciò che Alden intendeva quando scriveva del fuoco della
conoscenza: non leggere, ma *ascoltare* la materia stessa.»
Atem posò la
mano sul bordo della pagina, sentendo un leggero fremito sotto le dita.
Non c’era
paura nei suoi occhi, ma stupore.
«Forse il
deserto non voleva essere compreso. Solo ricordato.»
Elyos sorrise piano.
«Allora
continueremo a ricordare. Insieme.»
Era solo il suono di un nuovo giorno carico di novità.
La sabbia
luccicava sotto i primi raggi del sole, e tutto intorno sembrava respirare,
calmo e pieno di possibilità.
### **Capitolo 30 – la scelta**
Poco dopo,
la dottoressa Ishi rientrò nella tenda, stropicciandosi gli occhi.
«Il taccuino
di Alden… si sta dissolvendo.»
Lo teneva
tra le mani, e dalle sue dita cadevano piccoli granelli dorati di sabbia, che
luccicavano come polvere di stelle.
Atem si
avvicinò e lo sfiorò con delicatezza.
«Sta
tornando a casa,» disse piano.
Elyos capì
che non parlava solo del diario.
---
Uscirono
insieme, nel silenzio del mattino.
Davanti a
loro, le rovine sembravano nuove, illuminate da una luce che non veniva dal
sole.
Dalla
sabbia, lentamente, prese forma una figura: alta, regale, avvolta in vesti di
luce.
Elyos
trattenne il respiro.
Atem fece un
passo avanti.
«Padre…»
Il vecchio
sovrano lo osservò a lungo, con occhi pieni d’orgoglio e malinconia.
«Credevo che
fossi tornato per riprendere il tuo trono,» disse, la voce come pietra che
ricorda il fuoco.
«Il regno ha
bisogno del suo faraone.»
Atem chinò
il capo.
«Un tempo,
anch’io lo credevo. Ma il mondo che conoscevo è diventato sabbia, e la sabbia
appartiene al vento. Io non posso comandarla, posso solo onorarla.»
Il padre si
fece vicino, e per un istante la sua ombra coprì il volto del figlio.
«Hai
ereditato la mia forza… ma la usi per rinunciare.»
Non c’era
ribellione nei suoi occhi, ma una calma nuova.
«No, padre.
La uso per scegliere. È ciò che tu mi hai insegnato.»
Un lungo
silenzio li avvolse. Poi il vecchio re annuì, appena.
«Allora il
mio compito è finito. Vai, figlio mio. Il tempo degli uomini ti ha restituito
la pace che io non ho saputo darti.»
Posò una
mano sulla spalla del ragazzo. Poi svanì, dissolvendosi nella luce come il
canto di un antico rito.
---
Elyos lo
guardò, le lacrime che brillavano senza cadere.
«È tempo,
vero?»
«Sì. Ma non
sarà un addio.»
Lo mise
nella mano di Elyos e chiuse le dita attorno.
«Quando lo
leggerai, saprai che ti sto pensando.»
Lei lo
strinse forte, incapace di parlare.
Un lampo
dorato li avvolse entrambi.
Poi, quando
la luce svanì, la donna rimase sola davanti alla soglia di sabbia che ondeggiava
come acqua.
Sotto le
dita, il foglio si aprì da solo:
in
geroglifici semplici, chiarissimi, c’era scritto —
> *“Ci rivedremo presto, mamma.”*
---
Giorni dopo,
Elyos e la dottoressa Ishi erano sedute sull’aereo che le riportava verso casa.
Fuori dal
finestrino, il deserto si stendeva come un mare d’oro.
Ishi dormiva, esausta.
Elyos fissava il panorama, silenziosa.
Fu allora
che lo vide.
Un bagliore
lieve, appena accennato, correva accanto al finestrino: come se una piccola
scintilla la stesse accompagnando per un tratto di viaggio.
Il riflesso
si fece più chiaro, disegnando per un istante un profilo familiare, un sorriso
giovane, pieno di luce.
Elyos chiuse
gli occhi, trattenendo il fiato e poi sorridendo piano.
«Lo so,
piccolo mio. Sei ancora qui.»
Fuori, il
bagliore si allontanò dolcemente, fino a confondersi con il cielo.
Il vento —
lo stesso vento che aveva portato via il canto della sabbia — tornò a sfiorare
le nuvole.
E in quel momento,
Elyos sentì che, ovunque fosse, **Atem stava sorridendo con lei.**




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